Pubblichiamo due paragrafi che ci paiono piuttosto interessanti del recente documento “Un mondo verso l’abisso” approvato dai compagni dell’AMR “Controvento” nella loro assemblea di fine ottobre. Chi volesse leggere l’intero documento può clikkare sul seguente link https://www.amrcontrovento.it/2024/11/21/un-mondo-verso-labisso/
- Il conflitto israelo–palestinese e il massacro di Gaza. Dal 7 ottobre ad oggi abbiamo assunto su queste vicende una posizione diversa rispetto ad altre forze (dall’esaltazione dell’attacco palestinese ed il sostanziale sostegno dell’unità della resistenza di TIR-SiCobas, sino all’assenza di ogni critica pubblica ai metodi di lotta e all’unità della resistenza del PCL). Riteniamo sbagliato considerare reazionaria qualunque lotta nazionale. Da un punto di vista teorico, perché significherebbe annullare l’attuale gerarchia internazionale del capitale e del lavoro: non ci sono solo poli imperialisti e medie potenze capitaliste, ma rimangono ancora oggi semiperiferie e periferie subordinate. Critichiamo il sostegno alla resistenza ucraina non perché non ci siano subordinazioni nazionali, ma perché l’Ucraina è un’area di confine tra molteplici imperialismi e quel conflitto è oggi sussunto in uno scontro interimperialista. Altre guerre moderne, invece, hanno un’evidente profilo neocoloniale, dagli interventi mediorientali (Iraq e Afghanistan) a quelli in Nordafrica (Libia e Sahel). Israele poi ha storicamente una matrice neocoloniale, con un ruolo dello Stato Sionista nel subordinare la popolazione araba (nel paese e nei territori occupati) e nell’assumere gli interessi imperialisti nell’area (prima in rapporto con la Francia, poi con gli USA). Certo, nella dinamica contemporanea dell’imperialismo di attrito, in questa gerarchia internazionale del capitale e del lavoro si strutturano dinamiche e blocchi geopolitici che fanno capo ai principali poli imperialisti, risucchiando sempre più le specificità sociali dei diversi conflitti all’interno della logica e degli schieramenti della possibile prossima guerra globale: così, oggi, la competizione tra Cina e USA, l’inserimento russo e quello europeo, la proiezione iraniana e quella turca, giocano un ruolo negli eventi e negli sviluppi del 7 ottobre, del massacro di Gaza, dell’ipotesi di nuove alleanze tra stati arabi e Israele (pace di Abramo), del tentativo di costruire nuovi equilibri dell’area. Queste dinamiche, da seguire e da considerare perchè potrebbero diventare determinanti in un conflitto globale aperto, non eliminano però l’esistenza di relazioni sociali neo-coloniali che caratterizzano alcune popolazioni dell’area (dalla Palestina al Kurdistan). Da un punto di vista politico, negare queste subordinazioni neocoloniali porta al disfattismo bilaterale, che nega il carattere progressivo di una sconfitta imperialista in questi conflitti (Iraq, Afghanistan e Israele). Difendere il diritto di resistenza di chi subisce un’occupazione e una discriminazione non è solo giusto eticamente, ma anche importante perché una sconfitta imperialista indebolisce la sua egemonia e il suo comando. In ogni dinamica politica, compreso le guerre, i comunisti rivoluzionari rivendicano comunque l’autonomia di classe: anche in un movimento e in una guerra di liberazione, è cioè importante contrastare ogni alleanza interclassista, ogni fronte nazionale, proprio per evitare ogni subordinazione della classe lavoratrice alle proprie borghesie, foriera di conseguenze disastrose. Questo deve avvenire con nettezza e determinazione anche di fronte a possibili direzione democratiche e progressiste, che come più volte avvenuto nella storia sono poi capaci di farsi carico di feroci repressioni per bloccare ogni tentazione di rivoluzione sociale, come di tremende derive affaristico-clientelari (da Suharto ad Arafat). Questo deve avvenire con eguale forza e chiarezza di fronte a direzioni fondamentaliste e reazionarie, come oggi avviene nei paesi arabi e mediorientali, con forze religiose e comunitarie che hanno giocato un ruolo diretto nel costruire regimi autoritari, nel reprimere diritti sociali e civili, nel contrastare nel sangue grandi movimenti sociali giovanili e inclusivi (pensiamo al ruolo di Hamas in Palestina, Hezbollah in Libano, il regime teocratico in Iran o i partiti sciiti in Iraq). Nella dinamica ineguale e combinata del capitalismo, l’indipendenza senza trasformazione sociale sarebbe solo formale: un’eventuale Stato palestinese, nell’attuale quadro capitalista sarebbe comunque inquadrato in rapporti neocoloniali con Israele (se rimanesse), le petromonarchie, gli USA o la UE. Proprio il sostegno al diritto di resistenza e l’esplicito schieramento per la sconfitta di Israele, richiede allora l’esplicito e netto contrasto dell’attuale direzione nazionalista, comunitarista e reazionaria palestinese. In questa particolare formazione sociale, per di più, la subordinazione neocoloniale non avviene tra due paesi, ma tra due popoli tra il fiume e il mare. La necessità di una trasformazione sociale è allora ancora più evidente, perché la distruzione di quel regime neocoloniale in un modo di produzione capitalista non potrebbe avvenire che con operazioni di pulizia etnica o senza intaccarne le diseguaglianze strutturali, promuovendo una nuova borghesia dei subordinati come in Sudafrica. L’odierna sconfitta di Israele potrebbe però rappresentare un passaggio progressivo, capace anche di rimettere in discussione quell’egemonia comunitaria che oggi ingabbia il suo proletariato: proprio per questo è necessario contrastare Hamas (e Hezbollah, che seppur con tratti sociali ha la stessa matrice comunitaria) e differenziarsi da quella strategia terroristica di lotta armata (conseguenziale a quell’impostazione politica). Per questo è oggi centrale, contro il massacro palestinese e i ripetuti crimini di guerra israeliani, contrastare il fronte unitario della resistenza e le ipotesi di governo di unità nazionale delle dichiarazioni di Beirut e Pechino, sottoscritte anche dalla sinistra (Fdlp e Fplp). Per questo siamo contro i due stati e abbiamo usato la parola d’ordine della desionizzazione (storicamente usata da Matzpen), rivendicando la costruzione di un fronte unitario della classe lavoratrice israeliana e palestinese: solo la loro unità ha la possibilità di mettere in gioco la trasformazione di quella formazione sociale stratificata per nazionalità.
- Lo sviluppo di destre reazionarie. Come abbiamo ricordato l’anno scorso, la Grande Crisi, l’acutizzazione della competizione e il logoramento delle classi dominanti (sia nei paesi a tardo capitalismo, sia in periferie e semiperiferie in cui collassano gli equilibri), ha visto crescere una nuova destra di massa. I ceti intermedi (minacciati da crolli finanziari, recessioni e ristrutturazioni) hanno dato vita a movimenti che hanno confusamente amalgamato pulsioni contro le élite, nostalgie di un tempo mai vissuto, tentazioni comunitarie, ricerca di sicurezza, reazioni xenofobe e rifiuto di nuove norme sociali. Sono le basi storiche del fascismo, oggi però senza il suo uso della violenza [oggi inessenziale], ma con una nuova capacità di penetrazione nelle classi subalterne, persino in settori di classe operaia organizzata. Una nuova destra come il PIS polacco, Orban in Ungheria, il BJP e Modi in India, Trump in USA, Bolsonaro in Brasile, Erdogan in Turchia, Netanyahu in Israele, Bukele in Salvador, Khan in Pakistan, Abe in Giappone, Le Pen in Francia, il Vlaams Belang in Belgio, l’Ukip in GB, l’AFD in Germania. Movimenti che spesso hanno alluso ad una nuova gestione capitalistica della crisi, nazionalista e statalista, senza la capacità di costruirla, e che oggi possono contare sull’imperialismo di attrito per un loro rilancio, funzionale all’inquadramento e alla militarizzazione a cui tende la nuova fase. È la nuova stagione di Fratelli di Italia, VOX, i Democratici Svedesi e i Veri Finlandesi, il rilancio dell’AFD tedesca, Milei in Argentina, la destra religiosa in Israele. Negli ultimi anni si è anche vista una certa reattività di ampie coalizioni di contenimento, che comunque non sembrano bloccarne la deriva (Biden ed Harris in USA, Sanchez in Spagna, Lula in Brasile). Alla base di questa nuova matrice reazionaria c’è spesso un nucleo religioso, capace di plasmare identità comunitarie e sviluppare radicamento sociale attraverso propri apparati (chiese, scuole, associazioni di volontariato, reti di welfare e protezione per i fedeli). Questi movimenti politici integralisti e reazionari, in particolare in alcune formazioni sociali della periferia e della semiperiferia, sono non solo veicolo di organizzazione dei ceti intermedi e masse giovanili (spesso istruite ma senza aspettative), ma anche di una borghesia nazionale compressa dalla competizione e dalle gerarchie del mercato mondiale. Si pensi allo sviluppo dello stato teocratico sciita nella rivoluzione iraniana, Hezbollah in Libano, Da’wa e al-Sadr in Iraq, i Fratelli Musulmani e Hamas, il movimento talebano, la nuova destra religiosa ebraica, il BJP in India, i buddisti Bodu Bala Sena dello Sri Lanka o il Ma Ba Tha
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