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Nella periferia di Goma il Centro Don Bosco punto di riferimento per gli sfollati del conflitto



Allievi del laboratorio di saldatura.

Al Centro giovanile Don Bosco a Ngangi, nella periferia di Goma, a darci il benvenuto è il sorriso gioviale di don Patrick Mwenya, 32enne salesiano di Lubumbashi, arrivato nel capoluogo del Nord Kivu, provincia dell’est dell Repubblica democratica del Congo, soltanto due mesi fa, dopo avere trascorso cinque anni in Italia. Qui vivono sette confratelli, spiega, sotto la direzione di fratel Augustin Mupoyi, che come don Patrick in passato ha studiato in Italia. Intorno al grande centro salesiano la vista si perde sull’immenso, affollatissimo insediamento di tende dove hanno trovato rifugio gli abitanti dei villaggi occupati dal gruppo armato ribelle M23, arrivato a circa 20 Km da Goma, oltre le colline. «Dovunque volgete lo sguardo, qui intorno, vedete campi per sfollti. I terreni sono dei salesiani, via via che gli sfollati arrivavano li abbiamo dati a loro per potersi stabilire qui e sopravvivere in qualche modo. In tutto l’insediamento di Ngangi si contano almeno 80mila persone», racconta don Patrick. Un situazione umanitaria estremamente complessa, difficile, alla quale i salesiani stanno cercando di dare una risposta. 

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«Qui abbiamo la scuola materna, quella primaria e la superiore. Soltanto i bambini della primaria, dai 6 ai 12 anni, sono 2.500, divisi in due turni. Quelli della superiore sono 500. Per i bambini della primaria abbiamo attivato una mensa dove ogni giorno serviamo un piatto della nostra polenta, un pasto sostanzioso, che spesso per loro è l’unico di tutta la giornata. Ci sono poi i corsi di formazione professionale generalmente triennali nei quali abbiamo accolto tanti ragazzi provenienti dai campi per sfollati. Abbiamo proposto loro di venire a studiare qua, insieme agli altri allievi, e imparare un mestiere per tenerli occupati durante il giorno, toglierli dalla strada e dal pericolo di cadere nella rete della criminalità e nella violenza».

Le allieve del corso di cucito.


Le allieve del corso di cucito.



In totale, gli allievi dei corsi professionali sono 460. Per studiare si paga una retta, ma grazie a un serie di donazioni e di aiuti i salesiani possono corpire le spese per i ragazzi sfollati. Don Patrick mostra il laboratorio di saldatura. Si arriva poi al grande spazio dedicato alla falegnameria. All’ingresso campeggia una scritta in francese: “La precisione esige il silenzio”. Il lavoro qui dentro ferve, alcuni allievi sono impegnati nella costruzione di sedie, banchi, mobili sotto la direzione attenta dei loro insegnanti. «Per i ragazzi sfolliti la condizione di vita è davvero dura, molti di loro hanno perso i genitori nel conflitto. Alcuni sono stati accolti nelle famiglie di Goma». Apprendere un mestiere per loro significa trovare una via di riscatto, poter guardare al futuro. 

Nel laboratorio di formazione per futuri muratori, un gruppo di alleve sta terminando una lezione pratica su come si costruisce una casa, mattone su mattone. «In questo corso abbiamo accolto un buon numero di ragazze madri, sia sfollate che abitanti del quartiere», spiega ancora il sacerdote. «Sono loro stesse che hanno scelto questa specializzazione, probabilmente perché sanno che è remunerativa e che si trova più facilmente lavoro». Quello delle ragazze madri, giovanissime, è un problema molto diffuso nel quartiere, aggiunge il salesiano. Molte di loro studiano anche nei corsi di cucito. Come spiega un’insegnante, data la loro condizione, per loro il corso dura sei mesi.

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Don Patrick Mwenya, a destra, con un insegnante del corso di falegnameria.


Don Patrick Mwenya, a destra, con un insegnante del corso di falegnameria.

Il Centro giovanile Don Bosco non è solo una scuola e un oratorio: è un punto di riferimento per il quartiere, per le famiglie, per chi vive i margini, nel disagio sociale ed economico. «Qui abbiamo un dispensario di farmaci gestito da un medico, grazie al sostegno di Save the children: la sanità gratuita in questo Paese non esiste, così come non esiste la medicina di base. Qui si paga tutto e per la gente la sanità è carissima. I nostri alunni vengono a ricevere le cure qui da noi e offriamo assistenza agli sfollati dei campi che non hanno niente e non avrebbero alcun accesso alla sanità».

Qui, al Centro salesiano di Ngangi, l’assistenza agli sfollati a causa del conflitto, che ha conosciuto una ripresa alla fine del 2022, si esprime anche attraverso l’orfanatrofio, gestito dalle suore, che si occupano anche della scuola materna. «Abbiamo accolto alcuni bambini molto piccoli, neonati, i cui genitori erano stati uccisi dai ribelli. In alcuni casi i militari li hanno trovati abbandonati, lungo la strade, nei villaggi, e li hanno portati qui da noi. Questi piccoli, vittime del conflitto, non sapranno mai chi erano i i loro genitori. Ora siamo noi la loro famiglia, li cresciamo come se fossero nostri figli». Fuori, in un grande spazio verde, si intravedono alcuni ragazzini in cerchio intenti a spaccare la legna, insieme a fratel Augustin. «Anche loro sono orfani della guerra che abbiamo accolto quando erano piccoli e vivono qui da noi». Il sacerdote salesiano li osserva da lontano e ride: «Se si chiede loro  chi è il padre rispondono senza alcuna esitazione: “È don Patrick”».   

(Nella foto in alto, l’uscita dal Centro giovanile Don Bosco dalla quale si accede subito al campo per sfollati)





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