Intervista all’autore ebreo-americano del romanzo/reportage “Un giorno nella vita di Abed Salama – Anatomia di una tragedia a Gerusalemme”, premio Pulitzer 2024. “Il mio libro racconta come vivono i palestinesi sotto la dominazione israeliana.”
Giornalista e scrittore, Nathan Thrall rappresenta una particolare espressione di intellettuale liminare: ebreo statunitense – nato 44 anni fa in California e residente oggi a Gerusalemme -, manifesta profonda partecipazione e solidarietà alla condizione palestinese, risultando per questo inviso sia alle frange estremiste israeliane che alla compagine araba radicale.
Esperto di Medio Oriente, Thrall ha diretto dal 2010 al 2020 l’Arab-Israeli Project nell’ambito dell’International Crisis Group – Ong transnazionale impegnata nella consulenza governativa in prevenzione e risoluzione dei conflitti -, occupandosi di Israele, Cisgiordania, Gaza e delle relazioni di Israele con i suoi vicini. A partire dal novembre 2023 insegna al Bard College, un istituto privato di arti liberali sito nel quartiere newyorchese di Red Hok, dove tiene corsi incentrati sul conflitto arabo-israeliano. I suoi scritti, tradotti in diverse lingue, sono stati pubblicati su The London Review of Books, The Guardian, The New York Review of Books e The New York Times Magazine.
Nel 2017, le edizioni Metropolitan Books pubblicano il suo primo saggio, The Only Language They Understand: Forcing Compromise in Israel and Palestine, in cui fondamentalmente vengono espresse forti riserve circa la possibilità che la questione israelo-palestinese si risolva da sé, in quanto entrambe le parti hanno tutto da guadagnare dal protrarsi della crisi. La soluzione caldeggiata nell’analisi di Thrall si appunta sull’intervento della comunità internazionale e principalmente degli Usa, che dovrebbero applicare severe pressioni economiche.
Il suo nuovo lavoro, il romanzo-reportage Un giorno nella vita di Abed Salama. Anatomia di una tragedia a Gerusalemme – pubblicato in Italia da Neri Pozza nella traduzione di Christian Pastore – prende le mosse da un incidente stradale che causa numerose vittime fra i bambini palestinesi, cagionando la drammatica odissea di un padre – Abed Salama – che cerca di conoscere la sorte del figlio di cinque anni in un intrico di ostacoli burocratici, fisici ed emotivi strettamente correlati alla sua condizione di palestinese. L’esistenza di Abed si incrocia con quella di altre persone – un’insegnante d’asilo e un meccanico, un ufficiale israeliano e un funzionario palestinese, un colono paramedico, operatori sanitari ultraortodossi e due madri, entrambe anelanti che il figlio ferito ma vivo sia il loro -, tutte coinvolte nella medesima tragedia. Un’opera intensa e polifonica, che è valsa al suo autore l’assegnazione del Premio Pulitzer 2024.
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Thrall, lei ha sottolineato, riguardo il suo romanzo: “Questa non è un’opera di finzione. Tutti i nomi presenti nel libro sono reali, tranne quelli di quattro persone”. Cosa ha significato per lei, anche emotivamente, scrivere questo libro?
Questo libro intreccia diversi temi. Racconta storie di singoli individui e, al tempo stesso, offre l’affresco collettivo della storia di una società. Si incentra fondamentalmente sulla dominazione israeliana sui civili palestinesi. Mi ero prefissato diversi obiettivi nel realizzarlo, come ad esempio far conoscere la burocrazia che innerva l’occupazione israeliana. Il principale obiettivo, tuttavia, che spero di aver centrato, è quello di testimoniare come realmente vivono e cosa provano i palestinesi costretti sotto la dominazione israeliana. Quando parli con i palestinesi, traspare dalle loro parole tutta la tragedia di vivere sotto un sistema di dominazione. Per quanto mi riguarda, devo confessare di aver imparato davvero molto in termini di conoscenza di questo sistema. Mentre scrivevo questo libro ho raggiunto una sorta di verità emotiva: è stato un processo molto doloroso.
Lei vive a Gerusalemme. Qual è l’orientamento generale dell’opinione pubblica riguardo al conflitto a Gaza?
Fondamentalmente, la maggior parte della società israeliana supporta la distruzione israeliana di Gaza. Al massimo, si discute intorno alla maggiore o minore forza da impiegare. Questo è il sentimento comune in Israele.
Alla luce dei recenti avvenimenti, la preoccupa il rischio di un’escalation militare con l’Iran e Hezbollah?
Sì, ne sono veramente preoccupato. Si tratta di una vera e propria guerra, non di un’escalation: Israele ha iniziato una guerra con il Libano. Si contano a oggi già cinquecento morti, e devo ammettere di essere piuttosto sorpreso della debolezza della risposta proveniente da Hezbollah. Fino a ieri ci raccontavano di quanto fosse pericolosa Hezbollah, di quanto fossero imponenti le capacità di Hamas, le loro risorse di precisione e i missili che avrebbero potuto utilizzare per penetrare nelle nostre difese. Ora abbiamo mosso guerra ad Hezbollah: nel centro del Paese vi sono stati danni ingenti e un cospicuo numero di vittime causate da Israele, che finora non ha fatto altro che aumentare la tensione senza peraltro ricevere alcuna risposta significativa dal Libano, l’unico a pagarne il prezzo. Pensi che il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, ha dichiarato che l’attacco in Libano è stato un capolavoro.
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Le manifestazioni continuano a favore del rilascio degli ostaggi. Come giudica l’andamento dei negoziati?
È sempre la stessa situazione che si trascina da mesi. Essenzialmente, Hamas chiede la fine della guerra e il ritiro delle forze israeliane da Gaza. Queste le due condizioni poste per poter arrivare a un accordo che permetta la liberazione degli ostaggi, condizioni che Israele ha sempre rifiutato.
Israele, invece, cosa chiede?
Israele, dal canto suo, solleva una miriade di temi, di dettagli, dal numero degli ostaggi ancora in vita alla futura conformazione dei confini, alla questione della sicurezza. Il punto nodale, tuttavia, è uno solo: Hamas chiede la fine della guerra e Israele puntualmente rifiuta. Intendiamo raggiungere un accordo sul rilascio degli ostaggi e, allo stesso tempo, chiediamo espressamente il permesso di continuare a bombardare Gaza dopo che Hamas si sarà privata dell’unica carta che può spendere sul tavolo dei negoziati. Sarebbe folle per Hamas rinunciare all’unica cosa che realmente ha in mano, gli ostaggi. Bisogna tuttavia rilevare l’unica novità positiva avvenuta negli ultimi giorni.
A cosa si riferisce?
Al fatto che gli Stati Uniti abbiano finalmente cominciato ad ammettere, anche attraverso giornali come il New York Times, che non si giungerà presto a un accordo per il rilascio degli ostaggi, che precedentemente veniva dato per imminente quando, nel mentre, continuava la distruzione di Gaza. Sulla carta non si arrestava il processo di pace: si continuava a parlare della soluzione dei due Stati e della fine dell’occupazione, si dava l’impressione che presto si sarebbe raggiunto un accordo affermando, allo stesso tempo, che si sarebbe trovata una soluzione anche riguardo l’espansione dei coloni nei Territori Occupati. Questo solo sulla carta, mentre nella realtà proseguivano i bombardamenti e la gente continuava a morire.
Lei racconta la storia della detenzione di Abed Salama. Qual è la condizione dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane oggi?
La condizione dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane è peggiore di quanto si possa immaginare. Sono soggetti a tortura. Vengono somministrate loro esigue razioni di cibo. Sono resi irriconoscibili persino per le loro famiglie. È una storia che si ripete continuamente. Vi sono stati numerosi report che hanno testimoniato di stupri dei prigionieri all’interno delle strutture di detenzione. Vengono tenuti nell’oscurità, incappucciati, nella stessa posizione per tutto il tempo che stabiliscono i loro carcerieri.
Cos’è la detenzione amministrativa? Potrebbe essere considerata una pratica illiberale?
Sicuramente la si può definire una pratica illiberale. Permette di trattenere qualunque palestinese anche senza processo o accuse. La loro detenzione può protrarsi per sei mesi e successivamente essere rinnovata per altri sei, sine die. Ciò significa che i palestinesi possono essere rinchiusi in carcere per sempre, senza vi siano accuse a loro carico e senza poter accedere a un giusto processo.
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Come giudica l’influenza di ministri di estrema destra come Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich sulle politiche governative?
La loro influenza è davvero cospicua all’interno di questo governo, in particolare a riguardo delle politiche adottate nei confronti dei palestinesi. Ad ogni modo, più in generale, Smotrich e Ben-Gvir, pur essendo responsabili del peggioramento delle cose, non costituiscono il problema principale.
Cosa intende dire?
L’occupazione israeliana dura da cinquantasette anni. Il progetto israeliano di colonizzazione è stato supportato da ogni tipo di governo sin dal 1967, sia che fosse di sinistra, di destra o di centro. Ci si era spesi per questo obiettivo molto prima che Smotrich e Ben-Gvir coltivassero il sogno di entrare a fare parte della politica israeliana. Il tema principale è il reale consenso che accompagna l’espansione delle colonie, la costrizione dei palestinesi in luoghi sempre più angusti e il mantenimento del controllo su di loro senza che venga loro concessa alcuna forma di autonomia o diritto di cittadinanza. Questa è la vera questione. Oggi si afferma che il problema sia rappresentato da Netanyahu, Smotrich, o Ben-Gvir: anche i leader del passato, di ispirazione liberale e progressisti, prima di prendere il potere hanno garantito un cambiamento sostanziale, ma poi, una volta al governo, hanno fatto le stesse cose.
Lei sottolinea che “le caratteristiche demografiche e geografiche dei Territori Occupati furono stravolte da Israele”. Come giudica la situazione attuale in Cisgiordania?
La Cisgiordania si trova in una situazione terribile. Si registrano più di seicento palestinesi uccisi dal 7 ottobre, continue violenze da parte dell’esercito e dei coloni armati, uno spostamento forzato dei palestinesi che, nei sei mesi successivi all’attacco di Hamas, è risultato maggiore di sempre. Migliaia di palestinesi sono stati rimossi dalla Cisgiordania. Abbiamo assistito al più considerevole furto di terra degli ultimi tempi: si è verificato l’esproprio più significativo da dieci anni a questa parte. A questo si aggiunge una situazione economica drammatica. In Cisgiordania si contavano centinaia di migliaia di posti di lavoro, scomparsi in Israele e nelle colonie israeliane, che rappresentavano il principale settore d’impiego per i palestinesi. Inoltre, permangono le restrizioni di movimento: adesso si impiegano delle ore per spostamenti che precedentemente avrebbero richiesto al massimo una mezz’ora. Infine, oggi Israele dispiega anche in Cisgiordania, come a Gaza, attacchi con droni e missili.
La definizione di “genocidio” utilizzata in relazione a ciò che sta accadendo a Gaza risulta piuttosto controversa. A proposito della storia dell’occupazione israeliana, tuttavia, è lecito parlare di pulizia e sostituzione etnica?
Sì. Bisogna andare indietro nel tempo a prima dell’occupazione israeliana. Lo stesso Stato di Israele è stato fondato nel 1948 attraverso un atto di pulizia etnica, con lo stanziamento della popolazione ebraica in Palestina, che nel 1957 costituiva già circa un terzo della popolazione, al quale venne offerto, con la protezione delle Nazioni Unite, più della metà dell’intero territorio, ovvero il 55%. Al fine di creare una stabile maggioranza ebraica, si è imposto un processo che avrebbe portato al consolidamento dello Stato di Israele: ha avuto luogo una consistente pulizia etnica, a tal punto che i palestinesi, da maggioranza, divennero una minoranza. La decisione di Israele dopo gli accordi di armistizio raggiunti nel 1949 verteva sul presupposto che ogni ebreo che aveva dovuto lasciare la propria terra durante la guerra poteva ritornarvi, mentre nei mesi precedenti migliaia di palestinesi furono costretti ad abbandonare per sempre le proprie case. Ciò finì per diventare permanente e gli ebrei finirono per rappresentare una schiacciante maggioranza. Un altro tipo di pulizia etnica che si può osservare oggi è in Cisgiordania. Sta avvenendo – lentamente ma sta avvenendo -, principalmente in alcune aree specifiche della Cisgiordania: intere comunità sono costrette dalla maggioranza ad abbandonare la propria regione.
Nelle discussioni inerenti i piani postbellici si vocifera di un ritorno del potere dell’ANP a Gaza. Lo ritiene plausibile?
Prima di tutto, Israele ha rifiutato molte volte di permettere che l’ANP facesse ritorno a Gaza. Oltre a ciò, al di là dei desiderata di Israele, è possibile verificare quale orientamento accomuni l’opinione pubblica nella Striscia: la stessa popolazione di Gaza non desidera il ritorno dell’ANP. Dopo tutte le distruzioni, dopo tutte le morti, è venuto finalmente il momento di concordare sull’entità del fallimento di qualunque progetto israeliano su Gaza, in quanto, ovunque si vada, è Hamas a detenere il potere sul terreno. Anche se Israele dovesse vincere militarmente nella Striscia, sarebbe comunque Hamas ad esercitare il potere effettivo sul territorio. Quindi, dovrebbe essere Hamas a decidere di permettere o meno la presenza dell’ANP nella Striscia.
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Ritiene che la soluzione dei due Stati sia ancora applicabile?
Penso che da tanti anni a questa parte la soluzione dei due Stati abbia rappresentato una copertura retorica affinché Israele potesse continuare la sua espansione in Cisgiordania. Se mi avesse chiesto prima del 7 ottobre se la soluzione dei due Stati potesse funzionare avrei risposto assolutamente di no, che non sarebbe stata neanche un’opzione. Sono convinto che tale formula sia utilizzata da Israele per poter conservare in maniera meno onerosa lo status quo e continuare a costruire in Cisgiordania, in Palestina e in altre aree. Anche oggi Israele intende continuare a mantenere le cose come stanno. Fino a quando il mondo non cambierà prospettiva, Israele preferirà continuare a imporre lo stato di fatto.
Giornalista e scrittore, Nathan Thrall rappresenta una particolare espressione di intellettuale liminare: ebreo statunitense – nato 44 anni fa in California e residente oggi a Gerusalemme -, manifesta profonda partecipazione e solidarietà alla condizione palestinese, risultando per questo inviso sia alle frange estremiste israeliane che alla compagine araba radicale.
Esperto di Medio Oriente, Thrall ha diretto dal 2010 al 2020 l’Arab-Israeli Project nell’ambito dell’International Crisis Group – Ong transnazionale impegnata nella consulenza governativa in prevenzione e risoluzione dei conflitti -, occupandosi di Israele, Cisgiordania, Gaza e delle relazioni di Israele con i suoi vicini. A partire dal novembre 2023 insegna al Bard College, un istituto privato di arti liberali sito nel quartiere newyorchese di Red Hok, dove tiene corsi incentrati sul conflitto arabo-israeliano. I suoi scritti, tradotti in diverse lingue, sono stati pubblicati su The London Review of Books, The Guardian, The New York Review of Books e The New York Times Magazine.
Nel 2017, le edizioni Metropolitan Books pubblicano il suo primo saggio, The Only Language They Understand: Forcing Compromise in Israel and Palestine, in cui fondamentalmente vengono espresse forti riserve circa la possibilità che la questione israelo-palestinese si risolva da sé, in quanto entrambe le parti hanno tutto da guadagnare dal protrarsi della crisi. La soluzione caldeggiata nell’analisi di Thrall si appunta sull’intervento della comunità internazionale e principalmente degli Usa, che dovrebbero applicare severe pressioni economiche.
Il suo nuovo lavoro, il romanzo-reportage Un giorno nella vita di Abed Salama. Anatomia di una tragedia a Gerusalemme – pubblicato in Italia da Neri Pozza nella traduzione di Christian Pastore – prende le mosse da un incidente stradale che causa numerose vittime fra i bambini palestinesi, cagionando la drammatica odissea di un padre – Abed Salama – che cerca di conoscere la sorte del figlio di cinque anni in un intrico di ostacoli burocratici, fisici ed emotivi strettamente correlati alla sua condizione di palestinese. L’esistenza di Abed si incrocia con quella di altre persone – un’insegnante d’asilo e un meccanico, un ufficiale israeliano e un funzionario palestinese, un colono paramedico, operatori sanitari ultraortodossi e due madri, entrambe anelanti che il figlio ferito ma vivo sia il loro -, tutte coinvolte nella medesima tragedia. Un’opera intensa e polifonica, che è valsa al suo autore l’assegnazione del Premio Pulitzer 2024.
Thrall, lei ha sottolineato, riguardo il suo romanzo: “Questa non è un’opera di finzione. Tutti i nomi presenti nel libro sono reali, tranne quelli di quattro persone”. Cosa ha significato per lei, anche emotivamente, scrivere questo libro?
Questo libro intreccia diversi temi. Racconta storie di singoli individui e, al tempo stesso, offre l’affresco collettivo della storia di una società. Si incentra fondamentalmente sulla dominazione israeliana sui civili palestinesi. Mi ero prefissato diversi obiettivi nel realizzarlo, come ad esempio far conoscere la burocrazia che innerva l’occupazione israeliana. Il principale obiettivo, tuttavia, che spero di aver centrato, è quello di testimoniare come realmente vivono e cosa provano i palestinesi costretti sotto la dominazione israeliana. Quando parli con i palestinesi, traspare dalle loro parole tutta la tragedia di vivere sotto un sistema di dominazione. Per quanto mi riguarda, devo confessare di aver imparato davvero molto in termini di conoscenza di questo sistema. Mentre scrivevo questo libro ho raggiunto una sorta di verità emotiva: è stato un processo molto doloroso.
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Lei vive a Gerusalemme. Qual è l’orientamento generale dell’opinione pubblica riguardo al conflitto a Gaza?
Fondamentalmente, la maggior parte della società israeliana supporta la distruzione israeliana di Gaza. Al massimo, si discute intorno alla maggiore o minore forza da impiegare. Questo è il sentimento comune in Israele.
Alla luce dei recenti avvenimenti, la preoccupa il rischio di un’escalation militare con l’Iran e Hezbollah?
Sì, ne sono veramente preoccupato. Si tratta di una vera e propria guerra, non di un’escalation: Israele ha iniziato una guerra con il Libano. Si contano a oggi già cinquecento morti, e devo ammettere di essere piuttosto sorpreso della debolezza della risposta proveniente da Hezbollah. Fino a ieri ci raccontavano di quanto fosse pericolosa Hezbollah, di quanto fossero imponenti le capacità di Hamas, le loro risorse di precisione e i missili che avrebbero potuto utilizzare per penetrare nelle nostre difese. Ora abbiamo mosso guerra ad Hezbollah: nel centro del Paese vi sono stati danni ingenti e un cospicuo numero di vittime causate da Israele, che finora non ha fatto altro che aumentare la tensione senza peraltro ricevere alcuna risposta significativa dal Libano, l’unico a pagarne il prezzo. Pensi che il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, ha dichiarato che l’attacco in Libano è stato un capolavoro.
Le manifestazioni continuano a favore del rilascio degli ostaggi. Come giudica l’andamento dei negoziati?
È sempre la stessa situazione che si trascina da mesi. Essenzialmente, Hamas chiede la fine della guerra e il ritiro delle forze israeliane da Gaza. Queste le due condizioni poste per poter arrivare a un accordo che permetta la liberazione degli ostaggi, condizioni che Israele ha sempre rifiutato.
Israele, invece, cosa chiede?
Israele, dal canto suo, solleva una miriade di temi, di dettagli, dal numero degli ostaggi ancora in vita alla futura conformazione dei confini, alla questione della sicurezza. Il punto nodale, tuttavia, è uno solo: Hamas chiede la fine della guerra e Israele puntualmente rifiuta. Intendiamo raggiungere un accordo sul rilascio degli ostaggi e, allo stesso tempo, chiediamo espressamente il permesso di continuare a bombardare Gaza dopo che Hamas si sarà privata dell’unica carta che può spendere sul tavolo dei negoziati. Sarebbe folle per Hamas rinunciare all’unica cosa che realmente ha in mano, gli ostaggi. Bisogna tuttavia rilevare l’unica novità positiva avvenuta negli ultimi giorni.
A cosa si riferisce?
Al fatto che gli Stati Uniti abbiano finalmente cominciato ad ammettere, anche attraverso giornali come il New York Times, che non si giungerà presto a un accordo per il rilascio degli ostaggi, che precedentemente veniva dato per imminente quando, nel mentre, continuava la distruzione di Gaza. Sulla carta non si arrestava il processo di pace: si continuava a parlare della soluzione dei due Stati e della fine dell’occupazione, si dava l’impressione che presto si sarebbe raggiunto un accordo affermando, allo stesso tempo, che si sarebbe trovata una soluzione anche riguardo l’espansione dei coloni nei Territori Occupati. Questo solo sulla carta, mentre nella realtà proseguivano i bombardamenti e la gente continuava a morire.
Lei racconta la storia della detenzione di Abed Salama. Qual è la condizione dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane oggi?
La condizione dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane è peggiore di quanto si possa immaginare. Sono soggetti a tortura. Vengono somministrate loro esigue razioni di cibo. Sono resi irriconoscibili persino per le loro famiglie. È una storia che si ripete continuamente. Vi sono stati numerosi report che hanno testimoniato di stupri dei prigionieri all’interno delle strutture di detenzione. Vengono tenuti nell’oscurità, incappucciati, nella stessa posizione per tutto il tempo che stabiliscono i loro carcerieri.
Cos’è la detenzione amministrativa? Potrebbe essere considerata una pratica illiberale?
Sicuramente la si può definire una pratica illiberale. Permette di trattenere qualunque palestinese anche senza processo o accuse. La loro detenzione può protrarsi per sei mesi e successivamente essere rinnovata per altri sei, sine die. Ciò significa che i palestinesi possono essere rinchiusi in carcere per sempre, senza vi siano accuse a loro carico e senza poter accedere a un giusto processo.
Come giudica l’influenza di ministri di estrema destra come Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich sulle politiche governative?
La loro influenza è davvero cospicua all’interno di questo governo, in particolare a riguardo delle politiche adottate nei confronti dei palestinesi. Ad ogni modo, più in generale, Smotrich e Ben-Gvir, pur essendo responsabili del peggioramento delle cose, non costituiscono il problema principale.
Cosa intende dire?
L’occupazione israeliana dura da cinquantasette anni. Il progetto israeliano di colonizzazione è stato supportato da ogni tipo di governo sin dal 1967, sia che fosse di sinistra, di destra o di centro. Ci si era spesi per questo obiettivo molto prima che Smotrich e Ben-Gvir coltivassero il sogno di entrare a fare parte della politica israeliana. Il tema principale è il reale consenso che accompagna l’espansione delle colonie, la costrizione dei palestinesi in luoghi sempre più angusti e il mantenimento del controllo su di loro senza che venga loro concessa alcuna forma di autonomia o diritto di cittadinanza. Questa è la vera questione. Oggi si afferma che il problema sia rappresentato da Netanyahu, Smotrich, o Ben-Gvir: anche i leader del passato, di ispirazione liberale e progressisti, prima di prendere il potere hanno garantito un cambiamento sostanziale, ma poi, una volta al governo, hanno fatto le stesse cose.
Lei sottolinea che “le caratteristiche demografiche e geografiche dei Territori Occupati furono stravolte da Israele”. Come giudica la situazione attuale in Cisgiordania?
La Cisgiordania si trova in una situazione terribile. Si registrano più di seicento palestinesi uccisi dal 7 ottobre, continue violenze da parte dell’esercito e dei coloni armati, uno spostamento forzato dei palestinesi che, nei sei mesi successivi all’attacco di Hamas, è risultato maggiore di sempre. Migliaia di palestinesi sono stati rimossi dalla Cisgiordania. Abbiamo assistito al più considerevole furto di terra degli ultimi tempi: si è verificato l’esproprio più significativo da dieci anni a questa parte. A questo si aggiunge una situazione economica drammatica. In Cisgiordania si contavano centinaia di migliaia di posti di lavoro, scomparsi in Israele e nelle colonie israeliane, che rappresentavano il principale settore d’impiego per i palestinesi. Inoltre, permangono le restrizioni di movimento: adesso si impiegano delle ore per spostamenti che precedentemente avrebbero richiesto al massimo una mezz’ora. Infine, oggi Israele dispiega anche in Cisgiordania, come a Gaza, attacchi con droni e missili.
La definizione di “genocidio” utilizzata in relazione a ciò che sta accadendo a Gaza risulta piuttosto controversa. A proposito della storia dell’occupazione israeliana, tuttavia, è lecito parlare di pulizia e sostituzione etnica?
Sì. Bisogna andare indietro nel tempo a prima dell’occupazione israeliana. Lo stesso Stato di Israele è stato fondato nel 1948 attraverso un atto di pulizia etnica, con lo stanziamento della popolazione ebraica in Palestina, che nel 1957 costituiva già circa un terzo della popolazione, al quale venne offerto, con la protezione delle Nazioni Unite, più della metà dell’intero territorio, ovvero il 55%. Al fine di creare una stabile maggioranza ebraica, si è imposto un processo che avrebbe portato al consolidamento dello Stato di Israele: ha avuto luogo una consistente pulizia etnica, a tal punto che i palestinesi, da maggioranza, divennero una minoranza. La decisione di Israele dopo gli accordi di armistizio raggiunti nel 1949 verteva sul presupposto che ogni ebreo che aveva dovuto lasciare la propria terra durante la guerra poteva ritornarvi, mentre nei mesi precedenti migliaia di palestinesi furono costretti ad abbandonare per sempre le proprie case. Ciò finì per diventare permanente e gli ebrei finirono per rappresentare una schiacciante maggioranza. Un altro tipo di pulizia etnica che si può osservare oggi è in Cisgiordania. Sta avvenendo – lentamente ma sta avvenendo -, principalmente in alcune aree specifiche della Cisgiordania: intere comunità sono costrette dalla maggioranza ad abbandonare la propria regione.
Nelle discussioni inerenti i piani postbellici si vocifera di un ritorno del potere dell’ANP a Gaza. Lo ritiene plausibile?
Prima di tutto, Israele ha rifiutato molte volte di permettere che l’ANP facesse ritorno a Gaza. Oltre a ciò, al di là dei desiderata di Israele, è possibile verificare quale orientamento accomuni l’opinione pubblica nella Striscia: la stessa popolazione di Gaza non desidera il ritorno dell’ANP. Dopo tutte le distruzioni, dopo tutte le morti, è venuto finalmente il momento di concordare sull’entità del fallimento di qualunque progetto israeliano su Gaza, in quanto, ovunque si vada, è Hamas a detenere il potere sul terreno. Anche se Israele dovesse vincere militarmente nella Striscia, sarebbe comunque Hamas ad esercitare il potere effettivo sul territorio. Quindi, dovrebbe essere Hamas a decidere di permettere o meno la presenza dell’ANP nella Striscia.
Ritiene che la soluzione dei due Stati sia ancora applicabile?
Penso che da tanti anni a questa parte la soluzione dei due Stati abbia rappresentato una copertura retorica affinché Israele potesse continuare la sua espansione in Cisgiordania. Se mi avesse chiesto prima del 7 ottobre se la soluzione dei due Stati potesse funzionare avrei risposto assolutamente di no, che non sarebbe stata neanche un’opzione. Sono convinto che tale formula sia utilizzata da Israele per poter conservare in maniera meno onerosa lo status quo e continuare a costruire in Cisgiordania, in Palestina e in altre aree. Anche oggi Israele intende continuare a mantenere le cose come stanno. Fino a quando il mondo non cambierà prospettiva, Israele preferirà continuare a imporre lo stato di fatto.