Un compagno al quale sono “affezionato” (tra l’altro perché ha un grandissimo talento per la poesia), ma su posizioni diverse dalle mie sulla visione di socialismo, mi contesta, con garbo, la mia affermazione che il “basta odio” su Craxi pubblicato da ”l’Unità” sia in realtà un velo che copre ulteriori schiaffi al socialismo. E mi dice: “il socialismo non era esclusiva proprietà del PSI… anzi”.
Trovo stucchevole fermarsi a dire che il contrasto tra PCI e PSI fosse dovuto al fatto che il PCI era legato alla URSS e il PSI invece a quella realtà europea che ho citato. Non è solo questo. Che il PCI avesse fatto passi importanti nella sua internazionalità è fuori dubbio. L’accettazione della NATO, la condanna del colpo di stato di Jaruzelski , tra le tante, lo dicono. Ma che questo non diventò la molla per far scattare un “abbraccio” con altre visioni di socialismo è altrettanto vero. Perché “quell’altro socialismo” non è mai stato accettato. E’ stato sempre considerato “nemico”. E il suo esponente in Italia disegnato con stivaloni e camicia nera. Su questo deve essere fatta chiarezza.
Il “compromesso storico”, che allora si stava ponendo come alternativa al pentapartito, in realtà era una strategia finalizzata al superamento della grave crisi economica che aveva colpito l’intero occidente a seguito della crisi energetica. Non rappresentava una rinuncia alle finalità proprie del comunismo. Era, invece, la riproposizione dei governi di unità nazionale del ’43 – ’47. Era una parentesi importante ma destinata prima o poi a chiudersi. (Commento dell’ex segretario nazionale della Federazione Giovanile Comunista Italiana: n.d.a.)
Il vero obbiettivo del Pci non era il compromesso storico, bensì andare “oltre” la politica di riforme economiche e sociali e di “welfare State” di stampo Keynesiano, alle quali avevano fatto ricorso con evidente successo le “socialdemocrazie”. Quelle riforme, che avevano migliorato le condizioni di vita dei lavoratori, avevano però fallito l’obbiettivo fondamentale del socialismo che, per il PCI, era quello di porre fine, attraverso la pianificazione economica, alle crisi cicliche del capitalismo per “garantire uno sviluppo continuo e armonioso dell’intera società”.
In realtà i primi tentativi di programmazione fatti dai governo del centrosinistra dopo l’ingresso dei nenniani, furono bocciati sonoramente dal PCI. Perché? Non c’era stata preconcetta ostilità nei confronti del PCI: il PSI – su spinta di Lombardi – aveva rifiutato la morotea “delimitazione della maggioranza” (rigetto pregiudiziale dei voti comunisti anche se aggiuntivi), e dopo la drammatica “notte di San Gregorio”, (auspici J.F. Kennedy e Papa Giovanni XXIII) aveva accettato un programma di governo che sembrava fragile e sdrucciolevole «per un esperimento che poteva e doveva essere interessante per tutta la sinistra: ma il Pci non volle e non seppe comprendere il significato e le possibilità di quella audacia lombardiana» (Macaluso). Eppure, tra le tante fragilità, in quel programma era esplicita una seria politica di programmazione. Solo che non aveva come scopo di creare una società marxista.
Solo per la verità storica, è utile ricordare che nel lontano marzo 1981 Craxi, tramite Eugenio Scalfari, inviò un messaggio a Berlinguer affermando di essere pronto a rompere con la DC per comporre un governo con i partiti laici e l’appoggio esterno del PCI e accompagnando la proposta con l’impegno di promuovere successivamente l’ingresso del PCI al governo. E la proposta fu ripetuta nel 1982 (crisi del Governo Spadolini) e nel 1983 (Congresso PCI). Un no chiaro, o meglio un basta, alla conventio ad escludendum. Non ci fu risposta. Alla base, la convinzione che il socialismo liberale di Carlo Rosselli la teoria della giustizia di John Rawls era contrapposto all’idea marxista che il PCI propugnava. Il capitalismo, secondo il Pci, non poteva essere riformato. Un Landini dell’epoca avrebbe detto che “Andava rovesciato come un guanto”. Perché esso aveva esaurito la sua capacità espansiva, era anzi diventato un ostacolo alla crescita. Ostacolo da superare rifiutando “i pannicelli caldi Keynesiani” (cfr Berlinguer e Spaventa). Mi domando: solo questa teoria dovrebbe essere “il socialismo”?
Non entro nel “conflitto” che è esistito tra i due massimi dirigenti del PCI e del PSI: credo fossero a contorno (condizione non secondaria, ma neanche esclusiva) di una diversità di indirizzo politico che si evidenziava ogni giorno di più dopo l’abbandono, nel PSI, delle tesi di De Martino. Quella diversa visione di socialismo si sarebbe potuta unificare riprendendo il filo interrotto del discorso avviato nel ’64 da Norberto Bobbio e Giorgio Amendola sulla necessità e possibilità di dare vita ad un processo di «ricomposizione unitaria delle sparse membra del socialismo italiano». Sulla creazione cioè di un unico grande partito dei lavoratori italiani. Un partito che, affermava con logica stringente Bobbio, «proprio perché faceva politica e per di più faceva politica di governo in uno Stato retto da una Costituzione liberale (e non in una democrazia popolare) non poteva che fare una politica socialdemocratica». A questo, concludeva Bobbio, “non c’è alternativa”. Un filo rimasto invece interrotto anche dopo la caduta del muro di Berlino.
Si è sostenuto che tra i motivi che impedirono questa ricomposizione vi fosse la difesa dell’unità interna del PCI. Berlinguer in una riunione di direzione introdusse questo tema. “Ci sono compagni, anche autorevoli, (l’accenno era a Napolitano) che ritengono che lo sbocco naturale del Partito sia quello di dichiararci per quello che già siamo, un partito del socialismo europeo. Il tema esiste ed è serio… Ma mi limito ad osservare che se questa fosse la nostra scelta sorgerebbe in un breve lasso di tempo alla nostra sinistra un nuovo Partito Comunista al quale aderirebbero un gran numero dei nostri iscritti e di elettori…” E Ugo Pecchioli, che sedeva al suo fianco, chiosò – con un tempismo un po’ sospetto – “ed io sarei tra i primi ad iscrivermi”.
Mi fermo qui. Per ora. Ho voluto solo fornire qualche spunto su quello che io considero un obbligatorio dibattito nella sinistra se si vuole risalire al chi eravamo; senza perdonare altri per quello che è solo la conclusione di qualcos’altro da doversi perdonare in casa.
Dopo la morte per fucilazione via giudiziaria del PSI, la diaspora socialista è ripresa più veemente che mai. E’ ripresa la “grande illusione”, per dirla con il titolo del film che si sta proiettando in questi giorni, del PD quasi in continuazione con quella del PCI. Si ripropone non più l’alternativa ad una DC rappresentativa del centro politico (che non esiste più, fucilata assieme al PSI), ma comunque un frontismo, che ammicca a culture populiste, contro il centro, regalato così alla destra. Eppure la “grande illusione” si è infranta contro il muro di Berlino ed è restata sepolta sotto le sue macerie al pari dell’utopia comunista dalla quale era derivata. E non è bastato quanto accaduto in Francia.
Ora si dice “basta odio”. Non basta se ci si ferma a questo. Non serve. A nessuno della sinistra. Soprattutto a chi riposa ad Hammamet.
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