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Riconoscere la violenza: Alessandra Ghisleri si racconta


Intervista a Alessandra Ghisleri, sondaggista e direttrice di Euromedia Research.

Appare spesso in uno schermo nello schermo, in quell’Inception quotidiano che ci propone la tv e che mescola livelli e linguaggi, notizie e opinioni come al mercato. Solo che Alessandra Ghisleri non vende niente e soprattutto non confonde: legge la realtà, la interpreta e la traduce in numeri. Ghisleri quasi come Andy Warhol, quindi: riproduce un’immagine ispirata al contesto. Forse per questo sono spesso le serigrafie dell’artista più iconico della Pop Art a riempire gli affacci tv della signora dei sondaggi.
Consulente di fiducia di Berlusconi dal 2004 al 2013, Ghisleri ha fondato e dirige l’istituto Euromedia Research ed è tra i sondaggisti più autorevoli del nostro Paese.

“Quando Berlusconi mi ha scelto come punto di riferimento per le ricerche di mercato molti ci hanno riso su. Non era facile farsi strada in un mercato così competitivo e frequentato prevalentemente da uomini. Qualcuno scrisse anche che meritavo di tornare a fare un lavoro antico, il più antico del mondo”. Con una laurea in Geologia e una tesi in Oceanografia paleontologica Alessandra Ghisleri poteva essere la signora dei mari e invece è diventata la signora dei sondaggi, copyright Silvio Berlusconi. “Mi è sempre piaciuta questa definizione, mi faceva e mi fa sentire ‘percepita’, è una forma di riconoscimento importante. Berlusconi mi ha dato anche l’opportunità di studiare e lavorare con professionalità altamente qualificate provenienti da tutto il mondo e di partecipare a campagne presidenziali di rilievo”.
Insomma, Ghisleri diventa Ghisleri grazie a Silvio Berlusconi, ma resta Ghisleri grazie a se stessa. Lo dimostra la varietà di partiti, aziende, imprese e organizzazioni trasversali che nel tempo si è rivolta e si rivolge ancora regolarmente a Euromedia Research. “Non c’è un partito con cui io non abbia lavorato e sono numerose le banche, le aziende farmaceutiche, industriali e assicurative che ci contattano”.

Da cosa dipende oggi l’affidabilità di un istituto di ricerca? Sono stati frequenti gli errori commessi negli ultimi anni, soprattutto nel periodo elettorale.
Attenzione, il problema spesso non sta nei sondaggi, ma nel racconto. Nelle recenti elezioni americane, per esempio, le previsioni fatte nei 7 cosiddetti “swing states” erano corrette. L’errore statistico era fissato al 3%, ecco perché quegli Stati erano in bilico. Ma negli Usa il sistema è diverso, ci sono molti sondaggi, buona parte sponsorizzati da questa o quella parte politica. Io penso che i sondaggisti italiani siano tra i migliori del mondo. Siamo molto bravi e siamo sempre sul pezzo.

Come si spiega in Italia il fenomeno dell’astensionismo? Anche alle ultime Regionali in Emilia Romagna e Umbria il partito del non voto è stato l’unico a vincere le elezioni.
C’è un disincanto diffuso, un allontanamento massiccio dalla politica che si traduce nella scarsa affluenza alle urne. In Italia si sono creati due blocchi molto stagni, due tifoserie. Da Berlusconi in poi la politica si è personalizzata, i partiti si sono identificati sempre più con il proprio leader e gli elettori sono diventati tifosi.

Il centro non esiste più?
Il centro esiste perché esiste un’Italia moderata.

Finanziamo agevolati e contributi

per le imprese

Che non trova rappresentanza e si nasconde nei poli estremi?
C’è un’Italia che si astiene e un’altra Italia non ideologica che si sposta da un partito all’altro sulla base della proposta politica. Per capirci: c’è uno zoccolo duro legato ai partiti che resiste nel tempo e poi ci sono gli elettori mobili che si spostano. Il centro di Calenda e Renzi per un periodo di tempo è riuscito ad essere competitivo con Lega e Forza Italia, poi le liti interne ne hanno eroso la solidità e quindi la credibilità. Voglio dire che esiste una parte consistente di popolazione che non vuole ‘estremizzarsi’, ma che sceglie comunque una parte rispetto a un’altra perché si adatta allo schema di polarizzazione che esiste.

C’è una certa polarizzazione anche sul concetto di patriarcato. Da donna, l’ha stupita il ministro Valditara quando ha detto che la lotta al patriarcato è ideologica?
Partiamo dal presupposto che nel percorso di realizzazione di ciascuno di noi attraversiamo tappe che sono più complicate per le donne che per gli uomini.  Una donna separata cui sono stati affidati i figli fa più fatica di un uomo a gestire famiglia e carriera.  Per non parlare dei nostri stipendi, ridicoli rispetto a quelli degli uomini.  È vero anche che è una questione sulla quale si sono fatti incredibili passi avanti, talvolta anche forzando il sistema, come con la Golfo-Mosca che ha imposto quote rosa nei Cda. La legge è stato un piede di porco importante. Tuttavia, penso che il tema delle donne sia importante perché ci vede sguarnite anche dal punto di vista della tutela: se noi donne siamo colpite da una malattia invalidante, gli effetti sono diversi rispetto agli uomini. La perdita di capelli, per esempio, per una donna è più sfregiante e invasiva.  Queste difficoltà vanno riconosciute e distinte.

E la lotta al patriarcato, quindi?  È ideologica?
Il patriarcato è un tema che si riscontra dove persiste un tipo di cultura specifico, all’interno di contesti familiari che sono il prodotto di un retaggio culturale. Però, esistono famiglie aperte e più evolute dove le nuove formule e gli esperimenti sono consentiti e incoraggiati. Secondo me non si deve parlare di lotta al patriarcato, ma di educazione. Un bambino recepisce messaggi e insegnamenti nei primi 3 anni di vita. Ebbene, dobbiamo educarlo a un certo tipo di comportamenti proprio in quel tempo, coinvolgendo le famiglie. Attraverso la collaborazione con un’associazione, abbiamo condotto test su un gruppo di bambini a scuola. Ci siamo accorti che alcuni di loro non capivano la violenza, non la leggevano e quindi non la riconoscevano perché non l’avevano mai vista, nessuno gliel’aveva insegnata. Allora è in quegli anni che bisognerebbe intervenire. Per questo non ne faccio un discorso di lotta al patriarcato, ma di educazione. Esiste invece un tema urgente che riguarda i femminicidi e ci costringe a riflettere sul fatto che in molti casi l’assassino è il ragazzo della porta accanto, il classico bravo ragazzo di cui sono piene le cronache.

Lo stesso ministro Valditara ha detto che l’incremento delle violenze è legato al fenomeno dell’immigrazione irregolare, ha ragione?
Non c’è un problema di immigrato contro naturalizzato, gli sbandati sono di qualsiasi colore ed età. Bisogna attivare processi di integrazione efficaci. Purtroppo è un’utopia perché le persone che scappano da alcuni posti, e sognano di arrivare in altri dove condurre una vita migliore, vengono delusi dalle condizioni pessime in cui si ritrovano e reagiscono ribellandosi a una società che non li integra e non li accetta. Ripeto, serve un percorso di integrazione. Ora, io ho visto i numeri: è evidente che se si considera il numero dei reati dal punto di vista statistico sul confronto degli immigrati, è alto perché nell’universo immigrati si individuano coloro che commettono delitti e che delinquono. Se invece si estende l’indagine a tutto il sistema Italia le percentuali si abbassano perché l’universo è più ampio. Detto questo, io penso che si debba sempre partire dalla scuola e dalla famiglia. Il percorso va fatto da quando si è piccoli, bisogna educare i bambini a riconoscere la violenza, non a definire che cos’è il patriarcato o il matriarcato. È importante imparare a distinguere sin da piccoli un comportamento sbagliato da uno giusto.



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