Il governo ha dato il via alla riforma dell’analisi del rischio e della riscossione. Ma l’insieme dei provvedimenti, compreso il concordato preventivo biennale, non sembra in grado di contrastare il possibile aumento dell’evasione, dopo molti anni di calo.
Una svolta che non arriva
Fin dal suo insediamento, il governo Meloni ha varato diversi provvedimenti di natura condonistica. Nella maggior parte dei casi provocano perdite di gettito, come si vede dalle stesse relazioni tecniche di accompagnamento dei provvedimenti.
La giustificazione dei condoni nel nostro paese è sempre stata l’idea che servono, se non a recuperare gettito (cosa ormai ampiamente smentita dai dati), almeno ad “azzerare il passato”, per costruire un nuovo rapporto con il contribuente attraverso la riforma del fisco. Ma è lecito dubitare che la svolta ci sia, e, soprattutto, che possa portare a una riduzione dell’evasione.
Ci soffermiamo qui sui principali provvedimenti in materia di attuazione della legge delega di riforma fiscale (legge 111 del 2023) nonché sui dati più recenti dell’evasione dell’Iva in Italia e in Europa.
L’analisi del rischio
Il decreto legislativo 13/2024, uno dei tasselli della riforma fiscale, all’articolo 2 fornisce finalmente un quadro giuridico all’analisi del rischio, definendone gli elementi fondamentali: il rischio fiscale, i criteri selettivi, l’analisi deterministica e quella probabilistica. In più, generalizza l’ambito dell’analisi alle “informazioni presenti in tutte le basi dati di cui dispone”, escluse solo quelle sui dati giudiziari in ambito penale, e prevede che i risultati possano essere usati anche per svolgere controlli preventivi. Una versione originaria della norma prevedeva che anche le informazioni “pubblicamente disponibili”, ad esempio sulle piattaforme online, potessero essere utilizzate per un’attività di data scraping, sulla scorta di quello che già avviene da tempo in Francia, ma la disposizione è stata eliminata accogliendo il parere critico del Garante della privacy. In ogni caso, non risulta ancora emanato il regolamento previsto dal comma 4 dell’articolo 2 del decreto legislativo 13/2024, che deve definire le specifiche limitazioni e modalità di esercizio dei diritti degli interessati, in modo da assicurare che non possa arrecare un “pregiudizio effettivo e concreto” all’obiettivo di interesse pubblico costituito da prevenzione e contrasto dell’evasione.
È evidentemente questo il punto critico: l’equilibrio tra diritto alla privacy e l’interesse pubblico al contrasto dell’evasione. Alla luce dei precedenti, il regolamento da emanare è particolarmente importante. In teoria, l’analisi del rischio è già prevista in Italia fin dalla legge di bilancio per il 2020 per quel che riguarda l’anagrafe dei rapporti finanziari, ma l’impossibilità di trovare un accordo tra Agenzia delle entrate e Garante della privacy ha reso inattuabile fino al 2022 la norma e a tutt’oggi i suoi effetti concreti non sono comunque ancora chiari. Quindi, è difficile dire che risultati potrà avere la riforma.
La riforma della riscossione
L’inserimento nella legge delega degli obiettivi di incremento dell’efficienza, dell’efficacia e dell’economicità del sistema di riscossione sembrava poter rappresentare un elemento importante, visto lo stato comatoso della nostra riscossione. Tuttavia, l’applicazione dei principi avvenuta con il decreto legislativo 110/2024 ha portato a una serie di cambiamenti di natura meramente procedurale, con poche, e non del tutto positive, innovazioni sul piano sostanziale, come già spiegato in una precedente analisi.
In estrema sintesi, la riforma non prevede chiari criteri di efficientamento dell’azione di riscossione. Per smaltire l’enorme magazzino di crediti fiscali non riscossi, una commissione dovrà individuare le possibili soluzioni e l’unico criterio indicato è la data in cui è sorto il credito. Per il momento non sono quindi valutabili né l’efficienza né l’equità della cancellazione. Per il futuro, si prevede solamente una generica attività di pianificazione dell’attività di riscossione, facendo riferimento a “logiche di raggruppamento dei crediti per codice fiscale” invece che a logiche fondate sulla probabilità di riscossione, come quelle adottate in diversi paesi. Qualora l’attività non andasse a buon fine, si prevede l’introduzione di un meccanismo di dismissione automatica dopo cinque anni, anche in questo caso senza una disciplina dei criteri che l’Agenzia dovrà seguire per scegliere quali debiti fiscali riscuotere in via prioritaria. Sarebbe stato opportuno indicare quantomeno la necessità che, utilizzando tutte le banche dati a sua disposizione, l’Agenzia effettui un’analisi della probabilità di riscossione considerando le caratteristiche del debito e del debitore.
Inoltre, la riforma non introduce novità sostanziali sul fronte dei poteri utilizzabili dall’Agenzia della riscossione, che a giudizio dell’Ocse sono storicamente inferiori rispetto a quelli previsti in altri paesi. Una parziale eccezione è rappresentata dall’introduzione, con la legge di bilancio 2024, delle nuove “modalità telematiche di cooperazione applicativa”. Il riferimento implicito è allo scambio dei dati con le banche e con gli altri intermediari finanziari per accedere ai conti correnti dei contribuenti debitori, ma la formulazione originaria (poi accantonata) era molto più chiara e operativa, perché prevedeva il “collegamento telematico diretto alle informazioni relative alle disponibilità giacenti sui predetti conti prima di procedere al pignoramento dei conti correnti” per evitare il problema dei cosiddetti “pignoramenti al buio”. In ogni caso, non è stato ancora emanato il decreto attuativo, sebbene la relazione tecnica avesse previsto un aumento di gettito da riscossione di circa 350 milioni nel 2025 e di circa 700 milioni nel 2026. Invece di definire e aumentare i poteri e gli strumenti per l’amministrazione, la riforma della riscossione punta sull’ampliamento delle possibilità di compensazione volontaria dei debiti con i crediti fiscali e su nuove ipotesi di rateazione delle somme iscritte a ruolo.
Il concordato preventivo biennale
Nelle intenzioni del governo, la principale politica di contrasto dell’evasione degli imprenditori individuali e dei lavoratori autonomi, che in Italia è stimata pari ai due terzi dell’imposta potenziale per poco meno di 30 miliardi di euro annui, è rappresentata dall’introduzione del concordato preventivo biennale (Cpb), che ha avuto una vita travagliata e diverse versioni. L’ultima, delineata nell’articolo 4 del decreto legislativo 108/2024, nel tentativo di incentivare le adesioni, ha introdotto un regime opzionale di flat tax, con aliquote variabili tra il 10 e il 15 per cento, sul maggior reddito dichiarato, rispetto al periodo precedente, dai contribuenti che aderiscono al concordato. Tuttavia, neanche quest’ennesima violazione dei più elementari principi di equità orizzontale, e neppure la sanatoria fiscale per i periodi dal 2018 al 2022 sempre per chi aderisce al Cpb, introdotta dal decreto 113/2024, sono riuscite a evitare un sostanziale flop del provvedimento. Anche dopo la riapertura dei termini, – stando a quanto dichiarato dall’amministratore delegato di Sogei, Cristiano Cannarsa, a Italia Oggi – risulta aver aderito al concordato solo il 13 per cento dei contribuenti potenzialmente interessati, pari a 584mila. Per di più, per quasi l’80 per cento sono contribuenti Isa (a riprova del sostanziale fallimento del tentativo di attirare i soggetti forfettari), per il 58 per cento già virtuosi (cioè con Isa pari almeno a 8) . Malgrado tutte le modifiche intervenute dopo la prima formulazione, il provvedimento ha presumibilmente coinvolto soprattutto i soggetti non evasori (o meno evasori) che prevedono di avere redditi superiori nei prossimi anni, redditi che avrebbero con buona probabilità dichiarato e sui cui avrebbero pagato le imposte integralmente, e non nella misura ridotta prevista dal Cpb. Le cifre di gettito fornite (circa 1,6 miliardi) non rappresentando stime ufficiali, ma sono lorde, ossia si riferiscono all’intero ammontare di imposte attese senza sottrarre quelle che i contribuenti Isa avrebbero comunque versato se non ci fosse stato il Cpb.
Recente passato e prossimo futuro
Il recente rapporto “Vat gap in the EU” suona come un preoccupante campanello d’allarme. Da un lato, viene confermata la riduzione dell’evasione dell’Iva avvenuta in Italia, anche in controtendenza rispetto ad altri paesi europei, tra il 2016 e il 2019. Dall’altro lato, però, il notevole calo stimato nel biennio pandemico 2020-2021 sembra essere stato seguito da un “rimbalzo” sia per il nostro paese, che tornerebbe a un’evasione Iva di 24 miliardi annui cioè poco al di sotto del 15 per cento dell’imposta potenziale, sia per altri paesi (in particolare per la Francia).
È difficile capire le ragioni di questo andamento, che nel rapporto non viene spiegato, e che, in linea teorica, potrebbe essere dovuto sia a problemi metodologici, come la difficoltà a cogliere l’impatto dei break strutturali, sia a cambiamenti nelle abitudini di consumo, come una propensione al ritorno all’acquisto in contanti e presso le attività commerciali di piccola dimensione dopo la fine della pandemia. In ogni caso, il “rimbalzo” richiederebbe adeguate contromisure, che non sembra possano provenire dai provvedimenti varati dal governo fino a oggi.
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