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Cremona Sera – In terre di fiume d’inverno. Una dichiarazione d’amore per le meraviglie lungo le sponde del Po


Anche nei più uggiosi e freddi giorni d’inverno, passata la festa di sant’Antonio Abate e mentre ci si incammina verso i Giorni della Merla, andare sul fiume e viverlo è un toccasana, una necessità del tutto essenziale per stare alla larga da una società globalizzata in cui dilagano contenuti scontati, banali, ripetitivi, monotoni, essenzialmente noiosi. 

Per andare in golena, sugli argini, nei boschi, lungo le carraie e sugli spiaggioni (chi scrive queste righe sta ancora inorridendo al pensiero di aver udito, pochi mesi fa, una persona definirli “spiaggette”) bisogna sapersi infangare gli scarponi, i gambali; bisogna saper portare il tabarro o indossare un vecchio giaccone di quelli che si potrebbero strappare all’improvviso a contatto con i rovi o un vecchio tronco. 

Nel grande silenzio invernale il Po, con il suo teatro naturale, offre scenari spettacolari ed incantati, che solo chi conosce a fondo queste terre può raggiungere. Sia chiaro: qui non ci sono “location”, come amano dire i globalizzati che, probabilmente, si sentono meglio all’uso di qualche inglesaggine. Qui ci sono semplicemente luoghi. Non c’è il “green”, sempre con buona pace dei cultori incalliti delle inglesaggini: c’è semplicemente il verde… E col verde ci sono il fango, la sabbia, i pioppi, i salici, l’acqua, l’aria, il vento, il gelo e la pioggia: e tutto è grazia, nella sua vera, necessaria essenzialità.

Talvolta capita di incontrare, tra vecchie cascine e case coloniche, lapidi piazzate ed “inchiodate” sui muri che narrano di memorie passate. Sono le pietre parlanti, come le definisce chi scrive queste righe. Sono scritte in italiano, talvolta in latino, senza bisogno di ricorrere a linguaggi che non ci appartengono. Percorrendo la golena, a mezzogiorno e all’ora del vespro, tra una riva e l’altra capita ancora di avvertire, anche se sempre più di rado, profumi di cose buone, di piatti che ancora cercano tenacemente di tenere vivi antichi saperi, arcane tradizioni ereditate dai nostri nonni e bisnonni, quelli che il tabacco lo portavano regolarmente, quelli che allungavano il brodo col vino rosso per dargli sapore e si nutrivano con polenta, qualche fetta di salame, pane “miseria” e ciò che la natura offriva. Si avvertono profumi che parlano di un passato andato e di un presente che non annuncia, purtroppo, nulla di piacevole. 

In terra di fiume ancora si cerca di restare saldamente ancorati alle nostre identità più vere ed autentiche, tra molti ostacoli: purtroppo spesso messi anche da gente che qui ci è nata, ci vive ma ha svenduto la nostra identità, anche a tavola, anche nel linguaggio. Questa è terra fatta per chi la sa vivere ed apprezzare; sono ambienti di cui devono parlare e scrivere coloro che ci sono nati, ci vivono e li vivono. Questi, va ribadito fino alla nausea, sono posti in cui non esiste nessuna “location”, ma solo e semplicemente luoghi che sono da vivere, cogliere e apprezzare nella loro più intima e vera essenza. Sono da percorrere a piedi o in bicicletta, sporcandosi abiti e calzari, Sono luoghi in cui è necessario fermarsi accanto ad ogni muretto, ad ogni cascina, ad ogni casa colonica, ad ogni chiesetta, ad ogni crocevia perché in ogni dove puoi incontrare pietre che parlano, intrise di tracce di storia.  Bisogna entrare nei cimiteri di campagna, osservando e studiando le lapidi, scrutando i volti genuini e belli di chi ci ha preceduto, fermandosi a leggere, parola per parola, il contenuto di tante lapidi che spesso narrano di storie ai più sconosciute.

Quando poi desideriamo assaporare  piatti buoni e genuini è bene andare alla ricerca delle vecchie osterie di campagna, lasciando perdere le “food experience”: osterie e trattorie sono sufficienti e rappresentano il meglio della nostra cucina e del nostro cibo che si chiama, appunto, “cibo” e non food. Ci sono gli aperitivi, fatti con qualche buona fetta di salame, pane casereccio e vino in scodella: altro che “appetizers” ed “happy hour”. In terra di fiume si deve tornare ad essere autentici, ancorati alle nostre identità, anche facendo buona memoria e buon uso di quel “Tornate all’antico e sarà un progresso” pronunciato dal maestro Giuseppe Verdi, uno della nostra terra. 

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Anche oggi, sulla strada verso il fiume, ho avuto la disavventura di incontrare una persona che, in pochi giri di lancette, mi ha parlato di “location”, di “food” e, annunciandomi non so cosa (qualche bestialità probabilmente) mi ha detto “stay tuned”. Ho risposto in dialetto (da ora in avanti, a chi si rivolgerà a ci scrive queste righe con lingue che non sono la nostra risponderò solo ed esclusivamente in dialetto) certo del fatto che dovrebbe aver capito il mio “cortese”, accorato e “colorito” invito. 

Bisogna sapersi sporcare gli scarponi in terra di Po e sentire la forza della brina che ti fa vibrare le dita dei piedi; si deve apprezzare il volo della poiana, si deve ascoltare il canto dei germani intorno alle lanche e saper vivere in pienezza, e in silenzio, le ricchezze dell’essenziale. Il fiume è per chi ci è nato, ci vive, lo vive e lo racconta in dialetto o con la lingua di Dante. 

Eremita del Po





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