«Ricordati che non sarai mai abbastanza, ma che puoi arrivare a riconoscere il tuo valore solo se smetti di misurarlo». C’è un prima e un dopo nella vita di Demi Moore, un’attrice che, nel corso della sua lunga carriera, ha assaggiato trionfi e smacchi ma che, come una fenice, ogni volta è riuscita a rimettersi in gioco. Fino ad avere, giustamente, la meglio. Come appare in maniera più che evidente nel discorso pronunciato a Los Angeles lo scorso 5 gennaio ricevendo il primo Golden globe della sua vita. Nelle parole di Demi Moore c’è tutta la forza di una donna che, pur essendo stata negli anni 90 tra le dive più pagate di Hollywood, ha faticato non poco a liberarsi dello stigma di «attrice da pop corn» che un produttore le aveva affibbiato in giovane età e che, in tutti questi anni, è riuscita a convincerla che non avrebbe mai avuto un riconoscimento ufficiale.
Fino a quando il ruolo da protagonista del body horror The substance l’ha liberata da quarant’anni di fantasmi facendola arrivare a una pace non più armata con se stessa e contro tutti i pregiudizi che l’hanno tormentata nel tempo. Del resto, non è la prima volta che Demi Moore si mette a nudo e non è mai facile anche per chi, come lei, è abituato a mostrarsi senza veli, e non solo in senso metaforico. Nel 2021 aveva già affidato a una fortunata autobiografia, Inside out, la conta dei suoi demoni e delle sue dipendenze, raccontando violenze e grandi amori, paure date in pasto ai media e il desiderio, sempre coltivato, di essere una madre migliore della sua per le tre amatissime figlie. «La mia storia è soltanto mia. Sono l’unica che ne ha vissuto ogni istante, e ho deciso di rivendicare il diritto di raccontarla alle mie condizioni».
Così cominciava un memoir che tracciava il sunto di un’esistenza che non aveva risparmiato nulla a chi, nel ventennio 1980- 2000, aveva riempito le sale cinematografiche di tutto il mondo di personaggi iconici che ancora oggi rimangono, più dei film, impressi nella mente degli spettatori. Dalla vedova innamorata che lavora un vaso di terracotta in una delle scene più erotiche di sempre in Ghost, alla moglie che vende se stessa fasciata in un abito nero (che le apparteneva realmente) in Proposta indecente, passando per i muscoli guizzanti e sensuali della ballerina di lap dance in Striptease fino al desiderio di una donna che, molto prima del #MeToo, rivendica gli stessi diritti degli uomini a suon di sudore e di fatica di Soldato Jane.
In mezzo a blockbuster e a red carpet, c’è stata sempre e comunque una persona che, a discapito delle malelingue, ha fatto della resilienza il suo biglietto da visita e che non ha esitato a provare ogni sostanza poco lecita per trovare, ogni volta, la forza di andare avanti. Demi Moore gli errori li ha fatti e li ha pagati, sempre accompagnata da quel senso di autodistruzione che, nel corso degli anni, l’ha portata sulle prime pagine dei magazine di gossip, e non solo per pellicole campioni di incasso.
Perché l’attrice americana ha conosciuto il dolore fin dall’infanzia vagabonda, in pellegrinaggio tra gli stati americani e in balia di due genitori alcolizzati, quando salva la madre da un tentativo di suicidio e scopre la verità sul padre biologico, che non è lo stesso che l’ha cresciuta (peraltro morto suicida nel 1980 sotto gli occhi del fratello). Dopo il divorzio dei genitori, Moore rimase a vivere con la madre e venne stuprata, a soli 15 anni, da un amico di lei. La frattura con la madre fu tale che, l’anno dopo, l’attrice sposò il musicista Freddy Moore, mossa da quella ricerca di amore e di attenzioni che sarà destinata ancora una volta a naufragare di fronte ai continui tradimenti del marito.
Se la vita privata si stava delineando già in maniera complicata, una piccola parte nella soap opera General hospital aprì all’ex ragazzina di Roswell le porte del cinema in cui debuttò con Choices nel 1981 e, quattro anni dopo, con un ruolo da protagonista in St.Elmo’s Fire di Joel Schumacher. «Era di una bellezza incredibile, come un giovane cavallo arabo da corsa», disse di lei il regista che, insieme al fidanzato di allora, Emilio Estevez, fece provare a Moore l’ebrezza del rehab, costringendola alla prima di una lunga serie di disintossicazioni di cui sarà costellata la sua vita. Se quella contro l’alcool è stata una battaglia che l’attrice ha cominciato a combattere fin da subito, la cocaina prima e gli antidolorifici poi (senza dimenticare i problemi alimentari) hanno fatto il resto, aiutati dalla personalità complessa di una donna che non è mai riuscita ad accettarsi totalmente e che, per farlo, ha cercato nelle dipendenze un antidoto alle sue insicurezze.
Insicurezze che, come da copione, Demi Moore cercò di ricomporre con l’amore per Bruce Willis, sposato con un doppio matrimonio corredato dalle foto di Annie Leibovitz e impreziosito dalla nascita di tre figlie. Contemporaneamente, l’attrice divenne una star del botteghino inaugurando con Ghost, nel 1990, un decennio che la vedrà come una delle attrici più amate e meglio pagate di Hollywood. Soprannominata Gimme Moore (dammi di più), il suo nome sulla locandina era sinonimo di successo. Da Codice d’onore ai già ricordati Proposta indecente, Striptease, Soldato Jane e La lettera scarlatta, Demi Moore seduceva gli spettatori di tutto il mondo mentre mandava a rotoli il matrimonio con un uomo che, a sentire lei, pativa oltremodo la sua celebrità.
«Lo so, sembra una vita perfetta. Ma se ti porti dietro una voragine di vergogna e traumi, non c’è denaro o successo o celebrità che possa riempirla». Ma forse un altro uomo sì, e magari molto più giovane, come quell’Ashton Kutcher che, a discapito dei 15 anni di differenza, la rese di nuovo felice e desiderosa di allargare la famiglia. Era il 2003 e Demi Moore anticipò la stampa scandalistica presentandosi alla prima del film Charlie’s Angels mano nella mano con il venticinquenne con il quale era diventata «una ragazza normale che sa divertirsi». Innamorati, bellissimi, ricchissimi. E non così felici. Demi Moore perse, al sesto mese di gravidanza, la figlia che aspettava da Ashton e contemporaneamente cedette alle lusinghe dell’alcool e di un potente antidolorifico, il Vicodin, assunto per i postumi di un intervento alla schiena.
I continui tradimenti del marito (riportati, naturalmente, a mezzo stampa) non aiutavano e a questi si sommava la lontananza delle figlie che presero le distanze da una madre ancora troppo dedita ai suoi demoni per potersi dedicare a loro. Il mix era, letteralmente, esplosivo, e Demi, dopo aver fumato cannabis e inalato ossido di azoto, collassò e venne salvata per miracolo. La sua vita era a un bivio, l’attrice che tutti cercavano, la donna affamata d’amore per uomini e figlie («l’unico ruolo per il quale mi sentivo sicura era quello di madre», disse una volta), doveva recitare il suo ruolo più complesso, quello di chi sopravvive a se stessa. «Continuava a balenarmi in mente la stessa domanda: “Come sono arrivata a questo punto?”».
La storia di Demi Moore è, però, anche la storia di una donna che è riuscita ad andare oltre. Una donna che ha comprato giocattoli per superare le sue dipendenze, che per prima ha sfidato un’industria maschilista pretendendo cachet pari, se non superiori, a quelli degli attori uomini. Che all’apice del successo si è ritirata a vivere in un ranch nell’Idaho per non privare le sue figlie di quella normalità che lei non aveva mai avuto. Di una donna dagli affetti feroci, per le sue tre ragazze come per quel Bruce Willis con il quale ha mantenuto rapporti idilliaci tanto da formare una famiglia allargata e da accudirlo amorevolmente anche oggi che è segnato da una malattia degenerativa. E per lo stesso Ashton con il quale ha fondato un’organizzazione no profit, Thorn, che si occupa di creare sistemi tecnologici per prevenire gli abusi sui bambini, lo sfruttamento e il traffico di minori.
Attrice, produttrice, regista e attivista, Demi ha martoriato il suo corpo prima di accettarlo e di esporlo in tutta la sua femminile nudità su due cover che hanno fatto storia (nel 1991, bellissima e incinta su Vanity Fair, e nel 2019, cinquantaseienne dal fisico invidiabile su Harper’s Bazar), senza risparmiarsi critiche, senza auto assolversi, indugiando più sui fallimenti che sui successi, per regalare momenti di intima e dolorosa umanità. Quegli stessi che ha saputo rendere alla perfezione nella pellicola di Coralie Fargeat, The Substance in cui il ruolo della cinquantenne Elisabeth Sparkle che, pur di non invecchiare, assume un farmaco illegale che fa uscire da lei la sua versione giovane e perfetta (interpretata da Margaret Qualley), è stato realmente per Demi quello della vita. Ulteriore dimostrazione, se mai ce ne fosse bisogno, è la sua prima candidatura all’Oscar come migliore attrice protagonista a suggello, una volta di più, della sua trionfale rinascita. (riproduzione riservata)
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