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Moda accessibile, inclusiva e sostenibile? Svelati quelli che sembrano essere paradossi del lusso


La moda accessibile, inclusiva e sostenibile esiste?

Il fascino della moda nasce spesso dai suoi paradossi. Il lusso può essere accessibile? La sostenibilità può esistere se continuiamo a produrre? Perché scegliamo oggetti duraturi ma ne acquistiamo sempre di più? Lo stesso vale per l’idea di moda democratica: se la sua essenza è l’esclusività, come può essere inclusiva e accessibile a chiunque?

Spesso si pensa che l’accesso sia legato al prezzo. Il bello costa, ma tutti vogliamo averne un po’ nella nostra vita. Si tratta di una questione di certo non recente, come dimostra il passaggio di un’intervista di Maurizio Costanzo a Gianni Versace, risalente al gennaio 1980 e facile da trovare in rete. “Quanto costa un suo abito non da sera?”, chiede il giornalista. “Dalle 200 alle 400 mila lire e trovo che sia un prezzo ragionevole”, risponde Versace. Ricordiamo che lo stipendio medio degli italiani nel 1980 era di 350mila lire (dati Banca d’Italia) dunque un abito firmato costava un mese di stipendio. Costanzo ribatte “Ma come fate voi a dire che è ragionevole?”. La replica dello stilista è secca: “Un abito d’autore deve costare quanto un quadro. Dopodiché, come si copiano i quadri si copiano i vestiti. Il nostro vestito copiato nel grande magazzino costa 30-40 mila lire e tutti lo possono comprare.” In quegli anni la via a una moda più accessibile e democratica passava dunque per la riproduzione, che poteva provenire dal grande magazzino o dalla sarta di fiducia. Se da un lato la nascente moda degli stilisti era inaccessibile, ci si dava da fare per creare l’accesso in altro modo. Fatte le debite proporzioni con i prezzi e gli stipendi di quegli anni, oggi possiamo spendere molto meno per il vestire. Ma la democratizzazione della moda è legata solo all’accesso? E l’accesso è determinato solo dal prezzo?

Un look con giacca pre-loved della collezione Balmain H&M.

Oggi il fast fashion è la scelta privilegiata per la moda democratica e accessibile. Prezzo basso, distribuzione capillare, alto livello di servizio, varietà assicurata; sono questi gli elementi che ne hanno decretato successo e crescita negli ultimi decenni. Ma la copia non ci basta più e le tendenze stancano rapidamente. Per questo le aziende puntano all’originalità e all’edizione limitata (a volte nel tempo, altre nel numero di pezzi prodotti). Ecco che le collaborazioni creative arrivano in soccorso, con grandi nomi del fashion che si avvicinano alla moda rapida. Grazie a questo meccanismo ormai comune, arrivano nei nostri guardaroba abiti e accessori di nomi e autori che spesso sarebbero impossibili da raggiungere. I pionieri di questo approccio sono stati H&M e Karl Lagerfeld, con una collabo che nel 2004 ha portato scompiglio nell’intero settore, dividendo i commentatori tra apocalittici e integrati, polarizzati tra chi diceva “è la fine” e chi invece aveva intuito “questo è solo l’inizio”. Splendido anche lo spot che accompagnava il lancio, dove la haute life parigina si trasformava in divertente paradosso. Ne è scaturito un filone creativo e di marketing tuttora in essere, dove abbiamo visto all’opera marchi come Versace e Mugler, ma anche personaggi come Anna dello Russo e Madonna.

In anni più recenti le partnership sono diventate da occasionali a durature e i drop sono diventate collezioni pluriennali. Pensiamo alle recenti collezioni di Mango con Boglioli, di Uniqlo con JW Anderson ma anche con Clare Waight Keller e Lemaire, dove si mescolano i confini tra collaborazione tra brand e direzione creativa. Analogo ma ancora più radicale il rapporto tra OVS e Piombo, che ha fatto rinascere un nome glorioso, portandolo all’interno della grande distribuzione e rendendolo alla portata di tutti.

Uniqlo x JW Anderson

Ecco, dunque, che la moda da copertina e da passerella scende dalla vetta della sua piramide e si concede al grande pubblico. Si fa avvicinare con maggiore facilità per il prezzo accessibile, fa meno timore perché manca il filtro della boutique, diventa “quotidiana” eliminando le stranezze più estreme.

Tuttavia, la semplificazione non è l’unico modo per avvicinarsi al grande pubblico, che spesso opta per il second hand come strumento accessibile di espressione, creatività e divertimento. Negli anni del dialogo tra Versace e Costanzo il vintage era la scelta delle controculture e degli squattrinati. Nella vertiginosa voglia di nuovo degli anni 80, gli abiti usati (per quanto lussuosi) sapevano di strano, di vecchio e persino di sporco. Ne sono passati di anni e oggi la moda preloved appassiona i collezionisti, convince gli stylist, conforta gli ambientalisti e accontenta chi vuol spendere poco. Da Vinted a Vestiaire Collective, da The RealReal a Depop (ma belle sorprese continua a riservarle anche eBay) le sfumature del vintage sono decisamente più di 50. Sono arrivati anche collezionismo e borse che valgono come e più dei diamanti, ma la declinazione democratica assume un ruolo fondamentale. Come il fast fashion, il vintage si concede con facilità, ma aggiunge una dose di sostenibilità e cultura. Inoltre, le app hanno introdotto un ulteriore fondamentale elemento democratico, un diritto/dovere che si traduce in ricevere e spedire. Quello che si compra si può rivendere e la circolarità è tale che non solo si recupera, ma si rilancia. Gli armadi democratici diventano un’espressione creativa, dove ogni utente diventa autore di armadi vivi che si svuotano e si riempiono di continuo.

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Cresce dunque la consapevolezza che la democrazia, anche quella della moda, non si raggiunge soltanto con le buone intenzioni, che non si realizza solo spendendo il meno possibile e che deve riguardare tutta la filiera. Se ne sono accorti imprenditori e stilisti che – sempre meno rari – hanno capito che la moda può essere giusta, equilibrata e al contempo divertente e profittevole. E che non è necessario vivere nel cuore delle capitali della moda per creare qualcosa di nuovo e rilevante.

Prendiamo ad esempio Coloriage, realtà romana fondata da Valeria Kone e scaturita da un profondo amore per l’Africa. Il progetto nasce nel 2019 come scuola di moda gratuita, a cui nel 2021 si aggiunge un’impresa sociale che permette al business di stare in piedi. Nella sartoria di Trastevere e on-line si possono acquistare abiti per lui e per lei, kimono, cuscini, borse e tessili per la casa. Tessuti italiani e africani danno vita a prodotti colorati, accessibili, attenti a ogni persona coinvolta nella produzione e pieni di storie. Infatti, l’obiettivo dichiarato è quello di promuovere moda “etica, circolare e interculturale”.

Anche Artknit porta avanti l’idea di una moda democratica, giusta e di qualità. La sede è a Biella, ma si produce in tutta Italia. Non è un caso che il progetto si basi su un manifesto, una dichiarazione di intenti quasi politica che recita: “Siamo artigiani, designer e innovatori che abbracciano la missione di creare meno capi, fatti in modo migliore”. Tutto nasce per durare a lungo e per questo la qualità è alta e lo stile timeless. Ma qui non si punta al quiet luxury, bensì a una moda con un prezzo giusto, facile e attenta a tutta la filiera.

Ecco che la democratizzazione della moda funziona solo quando va in due direzioni: quando è un diritto ma anche un dovere, quando rispetta chi compra, chi pensa e chi produce. In questo senso siamo tutti ugualmente autori e – come diceva Versace – gli autori meritano rispetto. E il rispetto non è un paradosso.

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