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Serbia, le proteste segneranno “la fine del regime” di Aleksandar Vučić. Intervista a Srđan Cvijić


Bruxelles – Come nelle tessere del domino, in Serbia il crollo fatale di una pensilina alla stazione ferroviaria di Novi Sad ha innescato il più grande movimento di protesta dai tempi della caduta del regime di Slobodan Milošević. Venticinque anni dopo, un altro regime rischia di sbriciolarsi di fronte alle manifestazioni che si susseguono da ormai tre mesi, quello “violento e brutale” del Partito progressista serbo (Sns) e del suo leader, il presidente Aleksandar Vučić. “In un modo o nell’altro, questa è la fine del regime di Vučić”, ha predetto in un’intervista a Eunews Srđan Cvijić, analista politico e presidente dell’International Advisory Committee of the Belgrade Centre for Security Policy.

Pochi giorni fa, nel tentativo di placare le proteste studentesche, si è dimesso il primo ministro Miloš Vučević, al centro della bufera perché sindaco di Novi Sad ai tempi della ristrutturazione della stazione ferroviaria. “Un non evento”, secondo Cvijić, perché Vučević altro non era che un burattino del presidente, che nei dodici anni al potere “ha concentrato progressivamente tutto il potere su di sé”. Per questo – spiega da Belgrado Cvijić – “non ha sortito alcun effetto sulle manifestazioni“: gli studenti non si sono fermati, e non si fermeranno.

Srđan Cvijić, presidente dell’International Advisory Committee of the Belgrade Centre for Security Policy

La morte di 15 persone – più due feriti gravi – nell’incidente del 15 novembre scorso a Novi Sad ha scoperchiato il vaso di pandora sulla corruzione dilagante nel Paese balcanico, rovesciando per strada migliaia di persone al grido di ‘Corruption kills’. L’avanguardia della mobilitazione sono le Università: gli studenti hanno insediato nelle facoltà dei plenum, organi “dal basso” incaricati di prendere le decisioni e coordinati tra loro a livello nazionale. Senza colori politici e senza leader riconoscibili. “Gli studenti sono estremamente cauti a non avere niente a che fare con la politica, non c’è nessun contatto nemmeno con l’opposizione“, racconta ancora Cvijić, che ha potuto partecipare in prima persona – in quanto membro della società civile – ad alcuni di questi plenum.

Nelle piazze di Belgrado e delle principali città serbe, a differenza di quanto succede in Georgia, non si vedono nemmeno bandiere dell’Unione europea. Eppure entrambi sono paesi candidati all’adesione all’Ue, e – a Belgrado come a Tbilisi – nelle mobilitazioni entrano in gioco anche le posizioni marcatamente filo-russe dei propri governi. Ma “qui l’Unione europea è percepita come un alleato di Vučić“, ammette Cvijić, che è stato anche analista politico senior per le relazioni esterne dell’Ue. “A causa di tutta una serie di rapporti economici. È comprensibile, l’Ue non vuole isolare la Serbia, ma ha creato questa percezione”, spiega ancora, mettendo in chiaro che “non vuol dire che popolazione è anti-europea, ma che è delusa dall’Unione europea”.

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A livello nazionale invece, secondo il politologo serbo l’elusione delle etichette politiche non è soltanto una “decisione pragmatica” per evitare di esporsi alla “macchina del fango incredibilmente feroce” dell’apparato governativo, ma il frutto di anni di “antipolitica di Vučić”, che ha fatto sì che la popolazione “percepisce con sospetto qualsiasi attore politico”. È proprio la mancanza del legame con la politica la chiave del successo travolgente delle proteste: “Gli studenti hanno canalizzato la rivolta di una popolazione intera“, la “frustrazione di dodici anni di questo regime violento e brutale”, e “il livello di solidarietà è incredibile”, conferma Cvijić.

Addirittura, dopo una prima fase di arresti coatti durante i cortei di novembre, ultimamente – come durante il blocco stradale messo in atto lo scorso 27 gennaio da studenti e agricoltori su due importanti arterie verso il centro di Belgrado – la polizia stessa non ha voluto intervenire contro i manifestanti. Il partito nazionalista di Vučić si fa vendetta da solo: i responsabili delle violenze commesse sui manifestanti – sarebbero una ventina le persone attaccate in questi mesi – si sono spesso dimostrati affiliati all’Sns, come nel caso dell’agguato, sempre il 27 gennaio, subito a Novi Sad da un gruppo di studenti, colpevoli di aver imbrattato con graffiti e adesivi anti-governativi un ufficio del Partito progressista serbo, e nel quale è rimasta gravemente ferita una donna.

Miloš Vučević Aleksandar Vučić Serbia
Il presidente serbo, Aleksandar Vučić, e di spalle l’ex premier Miloš Vučević (credits: Oliver Bunic / Afp)

“Anche quando il coinvolgimento non è diretto, le violenze sono il risultato dell’istigazione e della propaganda” del regime, accusa Cvijić. Un regime “che assomiglia più a un’organizzazione mafiosa piuttosto che a un governo“. A questo punto, Vučić sembra essere scivolato in uno stretto pozzo, e qualsiasi tentativo di dimenarsi e risalire la china non fa altro che ricacciarlo più in giù. Come le accuse esplicite contro l’ingerenza nelle proteste di “agenti stranieri, provenienti da diversi Paesi occidentali”, che rischiano di alienargli definitivamente il già scarso supporto di cui gode nel resto d’Europa. Come l’apertura ad un rimpasto del governo e le dimissioni del premier: “Ora il regime è in difficoltà, perché se nominerà semplicemente un altro primo ministro come Vučević farà infuriare la gente – spiega Cvijić -, ma nemmeno le elezioni sono un’opzione perché i partiti di opposizione hanno già dichiarato che non parteciperebbero”.

L’unica opzione – indica l’analista – è “nominare un governo tecnico di transizione, con due scopi: liberare i media controllati dal governo e creare condizioni per elezioni libere”. A quel punto, sarà fondamentale scoprire se il movimento studentesco si sfilaccerà o se appoggerà uno dei candidati. Per ora, questa questione non si pone perché, più che politica, in Serbia è in atto “una vera rivoluzione morale e emotiva”. E questo, “in un modo o nell’altro, è la fine del regime di Vučić”.



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