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L’editoriale/ Almasri e l’errore della via giudiziaria


La scelta del governo italiano di riportare frettolosamente in patria, con un aereo dei servizi di sicurezza, il generale libico Osama Elmasry Njeem Habish detto Almasri, accusato di crimini di guerra e violazione dei diritti umani dalla Corte penale internazionale dell’Aia, ha riaperto antiche discussioni, difficili in effetti da risolvere, sul rapporto tra giusto e utile, sulla tensione esistente tra diritto e politica, sui contrasti che possono insorgere tra coscienza individuale e moralità collettiva. 
  Aver espulso Almasri, invece di arrestarlo e consegnarlo alla magistratura, è stata una decisione frettolosa e irresponsabile, assunta peraltro in violazione dei trattati internazionali e di un elementare senso di giustizia, o un atto politico in sé discrezionale ma ispirato a ragioni che hanno a che vedere con la tutela, legittima e necessaria, dell’interesse nazionale? 
  Cos’era preferibile in questo controverso caso: mandare a processo un personaggio accusato formalmente di essere un torturatore di regime o liberarsi senza troppi indugi di una presenza scomoda per non compromettere i rapporti dell’Italia con la Libia e non esporsi a prevedibili ritorsioni da parte di quest’ultima?  
  Dilemmi non facili da sciogliere e che hanno spinto critici e sostenitori del governo a evocare, con giudizi politici contrapposti, la cosiddetta ragion di Stato. Vale a dire la possibilità per chi detiene il potere, quando la necessità o la contingenza lo richiede, di agire fuori dalle regole convenzionali e con procedure straordinarie con l’obiettivo dichiarato di ottenere un bene collettivo e superiore, di conseguire un vantaggio che non sia soltanto privato e particolaristico. 
   L’idea alla base di questa concezione è che l’uomo di governo non sempre possa o debba agire secondo coscienza e giustizia. La sua virtù, infatti, non è l’osservanza intransigente e formalistica dei princìpi e delle leggi, ma il perseguimento degli scopi pratici che sono caratteristici della sua funzione. Su tutti, la sicurezza, l’ordine e la concordia interna della comunità che egli governa e rappresenta. 
   Ragion di Stato è, come noto, una formula d’origine tardo-cinquecentesca, che ha segnato la vita politica in particolare europea per almeno tre secoli. Era invocata soprattutto all’epoca delle grandi monarchie assolutistiche, quando l’esercizio del potere era ancora sottratto alla sovranità popolare. E dietro di essa si nascondono tutt’oggi i regimi autocratici, in modo opportunistico, quando debbono giustificare i loro abusi e nascondere le loro malefatte. 
   Una formula che proprio per questo si ritiene non abbia più senso nei contesti democratici, dove al massimo si può parlare di decisioni controverse adottate occasionalmente per ragioni di interesse generale, non di scelte e comportamenti destinati ufficialmente a restare segreti, avvolti da un alone di mistero o assunti senza risponderne all’opinione pubblica e ai diversi livelli istituzionali. Uno dei caratteri precipui della democrazia è infatti proprio il rilievo che essa assegna alla trasparenza e pubblicità degli atti e comportamenti di chi ricopre incarichi e ruoli di responsabilità politica. 
   Ma tra operare in modo opaco e fuori da ogni regola, utilizzando l’interesse superiore dello Stato come pretesto per decisioni puramente arbitrarie e illegittime, e trattare alcune materie con la necessaria discrezione e l’inevitabile discrezionalità per il bene stesso della collettività, restando peraltro sempre nel perimetro del diritto e della legalità, c’è – come si comprende facilmente – una bella differenza. Se le democrazie non possono avere segreti conosciuti solo da pochi, debbono però poter agire con riservatezza, adottando, quando le circostanze lo richiedono, anche scelte che possono suonare come politicamente controverse e moralmente discutibili, ma che sono comunque utili al loro buon funzionamento. 
   Il vantaggio della democrazia rispetto ad altre forme di governo, anche in materia di uso eccezionale del potere, è che i suoi governanti alla fine rispondono sempre agli elettori delle decisioni che prendono. La ragion di Stato delle democrazie, insomma, non è la ragione di Stato dei regimi assolutistici: la prima è un’eccezione necessaria, la seconda una prassi abituale. 
   Viviamo peraltro una strana epoca. Da un lato si pretende dagli uomini di potere e dai governi il massimo della trasparenza, della pubblicità e, va da sé, dell’onestà. Dall’altro si diffida per principio di tutto ciò che essi dicono per giustificare o motivare le loro decisioni o azioni. La ricerca di una verità assoluta e condivisa, vista come un ideale ormai a portata di mano, nelle democrazie contemporanee si scontra paradossalmente con uno spirito di diffidenza e una propensione al sospetto generalizzato che sempre più spesso sfocia nella paranoia complottista. Il che significa vedere intrighi, maneggi e comportamenti opachi anche laddove non c’è altro che la politica nel suo significato ordinario e con tutte le sue inevitabili contraddizioni. 
   Al tempo stesso, se da un lato i cittadini sono convinti di sapere tutto e di poter contare su un accesso ormai illimitato alle fonti di informazione, senza che il potere possa più nascondere nulla, dall’altro hanno anche l’impressione di non riuscire a conoscere e padroneggiare tutto ciò che riguarda le loro vite e di essere costantemente esposti a manipolazioni deliberate e a tentativi di alterazione della realtà in cui vivono ad opera di quello stesso potere che pensavano di aver messo definitivamente a nudo e sotto controllo. Due atteggiamenti che non è facile tenere insieme. 
   Per tornare alla cronaca italiana e alle polemiche furibonde che la liberazione di Almasri ha provocato, è chiaro che per l’Italia i rapporti politico-diplomatici con la Libia sono particolarmente delicati, difficili e non privi di aspetti problematici. Lo sono sempre stati nel passato, a maggiore ragione da quando quel Paese è stato destabilizzato, nell’illusione che abbattendo Gheddafi potesse trasformarsi in qualcosa di simile a una democrazia, e sospinto verso una spirale di guerra civile alimentata strumentalmente dai più diversi attori internazionali. 
   Con le autorità libiche negli anni abbiamo stretto accordi e intese per evitare il rischio di una gestione potenzialmente incontrollata, anzi volutamente criminale e ricattatoria, dei flussi migratori, a danno soprattutto dell’Italia. E lo abbiamo fatto pur sapendo di avere dinnanzi non solo una nazione frammentata territorialmente e priva di sovranità politica, ma anche interlocutori non particolarmente affidabili e scarsamente rispettosi dei diritti umani. 
   Una scelta moralmente discutibile, secondo molti, ma l’alternativa – non fare nulla per ragioni di intransigenza umanitaria – sarebbe stata decisamente più discutibile. Quella del governo italiano è stata una legittima scelta politica, da contestare eventualmente sul suo terreno specifico, lasciando perdere denunce, tribunali e processi, che su questa vicenda sanno tanto di propaganda grossolana travestita da difesa intransigente del diritto e dello spirito di giustizia. 

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