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Finanziamenti e contributi

Gli Usa fuori dall’accordo di Parigi: l’Africa a rischio


Il passo indietro ordinato da Trump impone alle nazioni in via di sviluppo di guardare altrove in cerca dei finanziamenti necessari per reggere l’urto della crisi climatica. Ma sperare nel supporto di Cina, India e Paesi del Golfo potrebbe non essere sufficiente

04 Febbraio 2025

Articolo di Rocco Bellantone

Tempo di lettura 5 minuti

Inondazioni in Kenya. Credito: Afp

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L’uscita degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima, messa nero su bianco dal presidente Donald Trump il 21 gennaio dopo essersi insediato per un secondo mandato alla Casa Bianca, impone al resto del pianeta l’individuazione di nuove strategie per l’adattamento e la mitigazione degli effetti della crisi climatica.

Vale anche per l’Africa, continente che vive nella scomoda condizione di contribuire meno degli altri al peso delle emissioni globali (solo il 3,2% rispetto al 13,5% degli Stati Uniti, secondi solo alla Cina) ma di subire per primo le conseguenze dei cambiamenti climatici.

Africa continente più esposto

Nel continente fenomeni come prolungati periodi di siccità prolungate, ondate di calore, desertificazioni, inondazioni, erosioni costiere, sono ormai da anni sempre più frequenti e violenti. La temperatura del continente sta inoltre aumentando più velocemente della media globale.

Ogni decennio, stando a quanto riferisce l’Organizzazione meteorologica mondiale, l’aumento è di 0,3 °C, con picchi ancora più alti nel Sahel. Dal 2000 la crisi climatica è costata alle economie africane circa 525 miliardi di dollari. Nella sola Africa orientale le calamità hanno colpito oltre 50 milioni di persone, mentre l’Africa occidentale rischia di perdere fino al 15% del proprio PIL entro il 2050.

Conseguenze disastrose

Le conseguenze di tutto ciò, già adesso, sono sotto gli occhi di tutti e sono tutte concatenate: perdita di risorse naturali, di risorse idriche e di raccolto, acuirsi dell’insicurezza alimentare, nuovi conflitti e migrazioni forzate. Attualmente in media i Paesi africani perdono dal 2 al 5% del loro PIL per i costi cui devono far fronte per riparare i danni causati dalle calamità naturali, il che li spinge a contrarre ulteriore debito con i Paesi extracontinentali.

Promesse non mantenute

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Dalla firma dell’Accordo di Parigi nel 2015, i paesi sviluppati si sono impegnati a mobilitare 100 miliardi di dollari all’anno per sostenere quelli in via di sviluppo nei loro piani di adattamento alla crisi climatica e per accompagnarli nel processo di transizione energetica che deve interessare i loro sistemi industriali e le loro economie.

Considerato che negli anni questa promessa di investimenti è stata in larga parte disattesa, e che a ogni Cop (le conferenze internazionali sul clima che si tengono ogni anno) si fanno solo piccoli passi avanti in questa direzione, l’uscita dall’Accordo di Parigi degli Stati Uniti non può che complicare ulteriormente la situazione di quei Paesi che oltre che subire per primi gli effetti dei cambiamenti climatici, sono alle prese anche con altri problemi annosi come conflitti, siccità, fame, mancanza di infrastrutture, servizi e cure mediche.

La politica di Biden

L’apporto dell’amministrazione Biden alla causa climatica è stato rilevante. Nel 2023 l’ex presidente degli Stati Uniti aveva annunciato un investimento di 3 miliardi di dollari da destinare al Fondo verde per il clima (Green Climate Fund, GCF), istituito nel 2010 dalla Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro sul Cambiamento Climatico delle Nazioni Unite (UNFCCC) per sostenere i Paesi in via di sviluppo nella sfida al surriscaldamento globale. Sempre l’amministrazione Biden si era impegnata a portare a 11,4 miliardi di dollari il contributo annuo degli Stati Uniti alle azioni globali per il clima.

Seppur allarmante, il congelamento di questi investimenti ora che Trump è tornato alla presidenza, non è comunque una novità assoluta considerato che il tycoon newyorkese lo aveva già ordinato nel suo primo mandato tra 2017 e 2021.

Cosa aspettarsi da Cina, India e Paesi del Golfo?

In attesa che l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sia effettiva (è necessario un anno di tempo prima che ciò si verifichi), i paesi africani provano a darsi una linea comune nell’interlocuzione da portare avanti con le grandi potenze: Cina e India in primis, ma anche Paesi del Golfo e Unione Europea.

In questa trattativa l’Africa può fare leva sull’immenso patrimonio di biodiversità che possiede e dalla cui cura dipende la salute degli ecosistemi dell’intero pianeta, così come sul suo enorme potenziale solare, eolico e geotermico.

In tal senso, la sostituzione obbligata degli Stati Uniti con altri interlocutori (seppur per il momento solo in via temporanea) può aprire delle opportunità ma anche innescare nuove false aspettative. Ai tempi del primo mandato di Trump, i paesi africani persero l’accesso a quasi 2 miliardi di dollari che erano stati loro promessi.

Un vuoto riempito dalla Cina

Quel vuoto venne colmato in buona parte dalla Cina, che ne approfittò subito investendo nel continente 43 miliardi di dollari in progetti per lo sviluppo delle rinnovabili. Soldi che sono sicuramente serviti a Pechino per radicare la propria presenza nel continente e crearsi canali sempre più diretti per l’approvvigionamento di materie prime. Ai paesi africani in mano è invece rimasto poco, e di certo quel poco non si è tradotto in interventi a tutela dei territori e delle comunità più esposti alle minacce climatiche.

La svolta fossile di Trump

Se è difficile credere che i grandi del pianeta raddoppieranno i loro sforzi economici per compensare l’assenza degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi almeno da qui alle prossime elezioni americane del 2028, ciò che è certo è che la nuova svolta fossile di Trump, concentrata nel suo slogan “Drill, baby, drill”, sta facendo centro in ogni angolo del pianeta. Anche in Africa. Le stesse banche americane che negli ultimi anni si erano esposte per finanziare progetti indirizzati al perseguimento della neutralità carbonica anche nel continente africano, si sono allontanate in massa dalla Net Zero Banking Alliance e ora sono pronte a tornare a sostenere gli investimenti nelle fossili delle big company del settore oil & gas. L’interesse per le scoperte di petrolio in Namibia si è già riacceso, così come ha ripreso corpo la possibilità per i finanziatori americani di sostenere TotalEnergies nella realizzazione dell’oleodotto EACOP (East Africa Crude Oil Pipeline) per il trasporto di greggio tra Uganda e Tanzania.

Non va però dimenticato che la linea di Trump, solcata da un altro suo ben più importante slogan, “America First”, punta a far virare questi finanziamenti anzitutto entro i confini statunitensi. È con questa realtà, anzitutto, che i Paesi africani produttori di petrolio e gas presto dovranno fare i conti.

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