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Patrimonio culturale, turismo sostenibile, partecipazione ‘dal basso’: un’alleanza per il futuro


ALLA RICERCA DI UN EQUILIBRIO TRA TUTELA E VALORIZZAZIONE

Il nostro Paese vanta una lunga e gloriosa tradizione nel campo della tutela. Solo molto recentemente si è cominciato ad attribuire pari dignità agli aspetti della valorizzazione, che andrebbe però liberata da una visione meramente e rozzamente economicista e intesa più propriamente come la capacità di attribuire valore a un patrimonio sentito come proprio, e dunque curato e arricchito di nuovi significati, come ci ha insegnato Massimo Montella. Un ritardo ancor più accentuato si registra nel campo della comunicazione, dell’inclusione e partecipazione e soprattutto in quello della gestione, che riguarda il turismo ma non solo.

Di continuo si fa riferimento, e giustamente, alla storia della tutela, a partire dagli stati preunitari fino alle leggi Rava-Rosadi e Bottai (L. 1089/1939) della prima metà del Novecento, e poi al testo Unico (Dlgs 490/1999) e al Codice (L. 42/2004) tuttora vigente, che di quelle leggi è erede diretto. Si tratta di un patrimonio fondamentale, una tradizione gloriosa, che però a cinquant’anni esatti dalla istituzione del Ministero dei Beni Culturali e Ambientali (come allora si chiamava il ministero voluto da Giovanni Spadolini) avrebbe bisogno di un deciso rinnovamento, per ravvivare il fuoco di quella tradizione, più che adorarne le ceneri. Le norme sono un frutto della storia e della società e vanno modificate quando la storia e la società sono cambiate. Le norme vigenti risalgono di fatto alla prima metà del Novecento. Non basta parò cambiare solo le norme, è necessario modificare le mentalità. Nella mia esperienza di presidente del Consiglio superiore ‘beni culturali e paesaggistici’ mi sono reso conto che gli unici veri cambiamenti sono possibili ormai solo dal basso.

Finalmente si va pienamente comprendendo che la filiera del patrimonio, pur essendo organica e parte di un sistema unitario, richiede molte competenze e professionalità diversificate, che non si possono racchiudere tutte nelle tradizionali figure dell’archeologo, dell’architetto o dello storico dell’arte. Si è insomma a lungo attribuita una priorità gerarchica alla tutela rispetto alla valorizzazione, e solo molto recentemente alla valorizzazione e alla gestione si è cominciato ad attribuire un rilievo prima negato, anche se la strada da percorrere è ancora lunga soprattutto nel campo della gestione. Per la verità, bisogna anche evitare il rischio di ribaltare la situazione, perché ultimamente gli istituti di tutela sono stati fortemente indeboliti e questo è un errore gravissimo nel quadro di una necessaria visione sistemica complessiva, olistica, di politica del patrimonio culturale.

L’impresa nel mondo dei beni culturali è un fenomeno assai recente. Per svariati motivi. Innanzitutto, per questioni di ordine culturale: a lungo economia e cultura sono state viste come due sfere separate, quasi contrapposte; è prevalsa (e a volte ancora prevale) una visione esclusivamente ‘centralista’ e ‘statalista’ non solo della tutela ma anche nel campo della valorizzazione e gestione del patrimonio culturale, nonostante le modifiche costituzionali che hanno trasferito competenze alle Regioni e soprattutto una spinta sempre più forte che viene dal basso.

Nel decennio passato si sono tentare importanti riforme, sia pur tra contradizioni, errori e soprattutto non adeguate applicazioni, con un’opposizione feroce anche di ambienti conservatori, presenti in entrambi gli schieramenti politici, arroccati nella difesa di una visione elitaria, iperstatalista e centralista, sulla base anche di un fraintendimento che fa coincidere sempre e comunque, quasi siano sinonimi, statale e pubblico.

Basti pensare alle pasticciate vicende, anche molto recenti, a proposito del pagamento per l’uso delle immagini del patrimonio culturale, contro ogni forma di liberalizzazione, in questo caso con una logica bottegaia, ispirata anche dalla difesa di un presunto uso “corretto” delle immagini, quasi vivessimo in uno Stato etico nel quale c’è chi decide (ma chi poi? un magistrato? un soprintendente? un funzionario? un professore?) cosa sia bene e cosa sia male, cosa sia bello e cosa brutto. Anche in questo ambito i confini tra innovatori e conservatori non coincidono nei tradizionali schieramenti di destra e sinistra; un Marcel Duchamp avrebbe avuto vita difficile nel dissacrare un’opera d’arte, considerata da alcuni giudici (a proposto del David di Michelangelo) un “testimone dell’identità culturale della nazione”, con tanto di richiamo al genio italico. Anche il Tribunale veneziano ha avviato una procedura contro l’uso dell’immagine dell’Uomo vitruviano di Leonardo da parte di un’impresa tedesca, salvo poi sentirsi precisare da un tribunale alemanno che il Codice dei beni culturali ha valore sono in Italia; quindi, a pagare sono solo i cittadini e le imprese italiane, a proposito della promozione del Made in Italy. Ma forse anche a questo si riferisce lo slogan “prima gli Italiani”!

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Certo verrebbe da dire, assistendo ad altri usi di immagini del patrimonio culturale per una promozione turistica italiana da parte governativa, “Quis custodiet ipsos custodes?”. La domanda è: possiamo condannare per legge il cattivo gusto?

Queste vicende accrescono una visione proprietaria del patrimonio culturale che contribuisce a accentuare il divario con la società. La tutela purtroppo è ancora sentita in larghi settori della società non come la cura di un bene comune ma come un impedimento allo sviluppo economico, per gli ostacoli, i ritardi, i mille problemi che pone in occasione di lavori edili o agricoli, di costruzione di infrastrutture, di trasformazioni del territorio, a volte – bisogna ammetterlo – anche per improprie ‘esagerazioni’, non giustificate dalla legittima e sempre necessaria azione di conoscenza e tutela del patrimonio.

Bisognerebbe ribaltare questa immagine, modificando la percezione diffusa del patrimonio culturale, da ‘problema’ a grande ‘risorsa’ per il Paese e per il suo sviluppo sano. Ed è necessario, altresì, affermare, nella stessa comunità degli specialisti dei beni culturali, l’idea che le risorse culturali sono anche risorse economiche perché contribuiscono al ‘benessere’, alla ‘qualità della vita’, alla felicità, cioè al ‘wellbeing’ e al ‘welfare’. Anche per questo è sempre più necessario misurare il valore sociale ed economico del patrimonio culturale, perché tale ‘valore’ può rappresentare la misura di quanto sia importante il patrimonio culturale per la società.

Dopo aver dibattuto lungamente sul ‘come’ bisognasse tutelare i beni culturali e sul ‘chi’ dovesse occuparsene, l’attuale scenario culturale italiano ed europeo ha ben chiaro che la reale durabilità/sostenibilità dei beni si gioca sulla capacità di spiegare il ‘perché’ conservare, il ‘per chi’ farlo, e sul potenziale ‘valore’ del patrimonio culturale anche come veicolo di crescita economica e sociale e di miglioramento diffuso della qualità della vita.

L’Italia è un paese straordinario, riserva continuamente scoperte e anche sorprese imprevedibili. Il nostro paese vanta ancora il maggior numero di siti Unesco al mondo, ma il vero primato (spesso calcolato con improbabili percentuali) non è questo: il vero primato consiste nella diffusione pervasiva in ogni luogo del nostro patrimonio culturale. Da più parti si è sempre sottolineata giustamente questa come la vera peculiarità italiana. Non c’è infatti angolo del nostro Paese che non presenti una ricchezza e un’articolazione di beni culturali e paesaggistici di grande valore. La stessa idea di patrimonio si è andata espandendo, non più limitata ai grandi monumenti, siti e musei, i cd. grandi attrattori che semmai costituiscono la punta dell’iceberg dell’enorme universo di beni materiali e immateriali, immobili e mobili, e soprattutto dai paesaggi. Un patrimonio così articolato e diffuso, anche a fronte di investimenti pubblici molto più consistenti di quelli finora garantiti, mai potrà essere tutelato, valorizzato e gestito esclusivamente dallo Stato. Solo una tutela sociale, basata sulla conoscenza, l’inclusione e la condivisione potrà salvarlo.

Molti, infatti, sono i beni culturali lasciati in stato di abbandono. Si pensi alla miriade di piccoli musei, di aree archeologiche, di chiese o palazzi inaccessibili e non fruibili.

L’eccellente gestione di molti siti da parte di varie organizzazioni del terzo settore, come il FAI ma non solo, dimostra le straordinarie possibilità che si potrebbero aprire favorendo nuove forme di coinvolgimento delle energie e competenze diffuse in Italia. Sia ben chiaro: non si tratta di chiedere un passo indietro da parte delle istituzioni pubbliche, ma, al contrario, uno in avanti, abbandonando definitivamente la tradizionale concezione ‘proprietaria’ del patrimonio in un’ottica di reale servizio pubblico, favorendo, indirizzando, sostenendo le tante energie presenti nella società

LA CONVENZIONE DI FARO E LE COMUNITÀ DI PATRIMONIO

La ‘Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società’, presentata il 27 ottobre 2005 a Faro, sottoscritta dall’Italia nel 2013 e ratificata nel 2020, rappresenta una tappa fondamentale in un processo di profondo rinnovamento. Con tale convezione si è aperta una nuova fase, affidando agli specialisti un nuovo e più impegnativo ruolo e assegnando un protagonismo prima impensabile alle cosiddette ‘comunità di patrimonio’. La Convenzione di Faro è rivoluzionaria innanzitutto perché ribalta il punto di vista tradizionale: non più solo quello degli specialisti, dei professori e dei funzionari della tutela, ma anche quello delle comunità locali, dei cittadini, degli utenti, sottolineando il valore della partecipazione democratica della cittadinanza alla vita culturale in tutte le sue fasi.

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Afferma il diritto e il dovere individuale e collettivo: di contribuire all’arricchimento del patrimonio culturale (art. 5) e di partecipare al processo della sua identificazione, studio, interpretazione, protezione, conservazione e presentazione e alla riflessione e al dibattito pubblico sulle opportunità e sulle sfide che il patrimonio rappresenta (art. 12), nonché a trarre beneficio dal patrimonio culturale e a contribuire al suo arricchimento (art. 4). Bisognerebbe quindi abbandonare la logica della partecipazione limitata, nel migliore dei casi, alla fase della fruizione o intesa come mero trasferimento, un po’ paternalistico, di conoscenze, traducendola nel coinvolgimento dei cittadini in tutti i processi decisionali e in tutte le fasi. Cosa difficilissima, che richiede apertura, disponibilità, curiosità, capacità di ascoltare e di rimettersi in discussione, voglia di confrontarsi anche con posizioni molto diverse dalle proprie, anche spiacevoli a volte. Ecco perché è molto importante riflettere su concetti fondamentali come comunità, partecipazione e altri ancora, sui quali non c’è ancora una definizione condivisa. Al momento della ratifica della Convenzione di Faro registravo due reazioni divere e opposte: da un lato la forte opposizione degli apparati burocratici, preoccupati di perdere potere, e dall’altro la mancanza di consapevolezza di tante realtà italiane che scoprivano di essere, senza saperlo, comunità di patrimonio.

Come ho scritto in varie occasioni, la Convenzione di Faro ha una portata rivoluzionaria, perfettamente in linea, a mio parere, con lo spirito rivoluzionario dell’articolo 9 della nostra Costituzione, con la sua innovativa e ampia concezione della tutela del ‘paesaggio e patrimonio storico e artistico della Nazione’ affidata alla Repubblica (e non solo allo Stato, ma a tutte le istituzioni pubbliche e soprattutto all’intera comunità dei cittadini che formano la res publica) e lo stretto legame tra tutela e promozione dello ‘sviluppo della cultura”, che oggi chiameremmo valorizzazione, intesa, come ho detto all’inizio, come capacità di dare valore sulla base della conoscenza. L’articolo 9 affida un ruolo centrale anche alla ricerca scientifica e tecnica: un invito da raccogliere stabilendo ad es. relazioni di maggiore integrazione tra MUR e MiC, magari finalmente realizzando quel progetto proposto da anni di dar vita ai “policlinici del patrimonio culturale”, strutture integrate di ricerca, formazione dei futuri professionisti e funzionari, valorizzazione e gestione.

In verità un altro nesso fondamentale sarebbe tra cultura e turismo. Si è tentato negli anni scorsi, pur con una girandola tra vari ministeri, con il MiBACT, con quella T da alcuni mal digerita e considerata quasi un elemento di disturbo, una sorta di inquinamento della presunta purezza della cultura, vedendo nel turismo una pericolosa contaminazione mercantilistica.

Il turismo è per sua natura un’attività fortemente trasversale e integrata, e certamente ci sono stringenti connessioni con vari settori, dall’agricoltura e l’alimentazione all’ambiente, dalle infrastrutture al commercio estero e allo sviluppo economico, ma non c’è alcun dubbio che se c’è una peculiarità tutta italiana che può e deve caratterizzare la nostra offerta turistica questa è la cultura, con l’immenso patrimonio di beni e di attività culturali, la musica, il teatro, le arti, e soprattutto con il paesaggio italiano. L’obiettivo, come si precisava nel Piano strategico 2017-22, non sarebbe certo snaturare il patrimonio culturale, ma semmai rendere più colto il turismo: non più elitario, ma di migliore qualità, più rispettoso dei paesaggi e del patrimonio, e anche più lento e capace di offrire una vera, intensa, piacevole opportunità di conoscenza delle mille peculiarità culturali dell’Italia e delle popolazioni di ogni parte, anche la più remota, del nostro Paese.

IL RISCHIO HIMBY

Anche la Convenzione di Faro, che a distanza di vent’anni avrebbe bisogno di qualche ritocco (basti pensare alla successiva rivoluzione digitale, se si considera che negli anni in cui veniva presentava vedeva la luce Facebook e tre anni dopo compariva il primo iPhone!), non è esente da rischi, se mal interpretata.

Un rischio da evitare, ad esempio, è quello ho proposto di chiamare “sindrome HIMBY (Heritage in my back yard)”, cioè un eccessivo localismo che finisca per considerare il patrimonio una proprietà solo di una ristretta comunità locale. A tale proposito non sembrano inopportune alcune domande: Da chi è composta una comunità di patrimonio? Solo da chi vive stabilmente in un luogo? E come consideriamo i turisti, che ora amiamo chiamare in maniera edulcorata “cittadini temporanei”? Soprattutto, come valutiamo i fenomeni di forte emigrazione, soprattutto giovanile e intellettuale, e in particolare i fenomeni crescenti di immigrazione? Sono questi cambiamenti profondi e rapidissimi che pongono problemi nuovi nel rapporto tra patrimoni culturali, patrimoni territoriali e comunità. Per tale motivo all’interno del progetto Changes, prendendo le mosse dal caso di Siponto a Manfredonia, abbiamo avviato un progetto sperimentale (patrimonio culturale e comunità in trasformazione) per la costituzione di una comunità di patrimonio interculturale intorno a luoghi del patrimonio, per dar vita a narrazioni, esperienze e attività che rivelino le molteplici se non infinite anime che il patrimonio culturale ha in sé. I primi risultati sono incoraggianti anche se non mancano le difficoltà, a cominciare dalle scarse esperienze simili, necessarie per condividere una metodologia. Inoltre, non è semplice definire un gruppo stabile di partecipanti, che peraltro sono molto diversi tra loro per origine, età, genere, livello di formazione ed emancipazione culturale e sociale.

Una categoria utile per definire una comunità è quella di solidarietà intesa con reciprocità e vantaggio comune nel perseguire un obiettivo condiviso. A mio parere un elemento per dare forza alle ‘comunità di patrimonio’ sarebbe la “coscienza di luogo”, che, nella visione proposta da Alberto Magnaghi «si può in sintesi definire come la consapevolezza, acquisita attraverso un percorso di trasformazione culturale degli abitanti/produttori, del valore patrimoniale dei beni comuni territoriali (materiali e relazionali) in quanto elementi essenziali per la riproduzione della vita individuale e collettiva, biologica e culturale».

Una coscienza di luogo fatta, quindi, di conoscenza profonda, stratigrafica, contestuale, aperta. Non c’è identità locale, infatti, sia senza senso di appartenenza universale, sia senza apertura verso l’altro. Un’identità locale costruita sulla conoscenza del passato ma in grado di guardare al futuro.

Prerequisiti necessari per consentire a tutti, o almeno al numero più ampio di persone, di attribuire valore al patrimonio sono dunque la conoscenza, l’educazione al patrimonio, la comunicazione. Campi nei quali nel nostro Paese riscontriamo ancora un certo ritardo.

LA COMUNICAZIONE IL RAPPORTO CON I CITTADINI

Pensiamo ai nostri luoghi della cultura: anche se la situazione va progressivamente migliorando, capita ancora spesso di osservare visitatori che si aggirano spaesati nelle sale di un museo o di una galleria d’arte o tra un groviglio di muretti incomprensibili di un parco archeologico, in preda a un senso di inadeguatezza.

I supporti didattici, quando sono presenti, sono il più delle volte poco chiari, concepiti in maniera elitaria, di fatto riservati solo a specialisti o a un pubblico particolarmente colto. Ai ‘visitatori normali’ si concede al massimo una sorta di contemplazione acritica che riesce a far esprimere ammirazione (‘che bello!’), oppure la partecipazione al rito delle foto e dei selfie davanti alle opere ‘feticcio’, da condividere sui social network, senza quel piacere della conoscenza che solo strumenti e linguaggi comunicativi adeguati riescono a trasmettere, in maniera efficace e stimolante.

Nei nostri musei prevalgono ancora verbosi pannelli e didascalie iper-tecniche che quasi nessuno capisce e che pochissimi leggono. È quella che abbiamo definito ‘sindrome della fistula plumbea’, che colpisce spesso i direttori e i curatori dei musei archeologici, ma da cui non sono immuni (tutt’altro!) gli storici dell’arte e i direttori di pinacoteche.

La buona comunicazione non può prescindere dalla buona ricerca, ma la buona ricerca da sola non può sempre garantire necessariamente una comunicazione efficace: però deve essere chiaro a tutti che solo una ricerca metodologicamente rigorosa e un’affidabile analisi e interpretazione dei dati possono garantire un racconto capace di produrre una reale crescita culturale insieme al piacere dell’esperienza conoscitiva.

C’è un altro ostacolo, non meno insidioso, a minare il cammino verso una divulgazione di qualità, capace di semplificare senza banalizzare, di stimolare la curiosità e di rendere chiari concetti complessi senza (ri)cadere in triti stereotipi che pensavamo ormai messi in soffitta: il sensazionalismo a tutti i costi. Si ricerca lo scoop, opportunamente reso noto strategicamente per garantirsi una copertura mediatica nei giorni festivi, con titoli ad effetto e rozze modernizzazioni che creano solo confusione (il primo street food, l’antenata della pizza napoletana, l’antenato del presepe, la prima birra e così via), con l’obiettivo più di alimentare il narcisismo di chi cerca facile fama che a produrre buona comunicazione. Si finisce per privilegiare la scoperta invece della ricerca sistematica e si alimenta il culto feticistico dell’oggetto bello, raro, curioso, a scapito della complessità propria del metodo scientifico. Così si rimettono indietro di molti decenni le lancette dell’orologio dell’archeologia e di altri ambiti del patrimonio culturale, che hanno fatto fatica nell’ultimo mezzo secolo ad affermare il metodo storico, scientifico e contestuale, il ricorso sistematico alle altre scienze (biologiche, chimiche, fisiche, informatiche, ecc.), le figure professionali finalmente indicate almeno in appositi elenchi, contrastando l’immagine stereotipata dell’avventuriero, dell’esploratore a caccia di misteri, oppure, al contrario, del topo di biblioteca e del personaggio eccentrico. Vorrei essere chiaro ed evitare fraintendimenti per non apparire un ingenuo “purista”, che non ama la divulgazione: la comunicazione ha le sue regole, serve la notizia per emergere dal rumore di fondo di migliaia di informazioni circolanti; il titolo ad effetto è scelto dal titolista e non certo dal ricercatore; i giornalisti sono spesso impreparati, semplificano eccessivamente e hanno fretta; a tutti (nessuno escluso: negarlo sarebbe pura ipocrisia) piace che una propria ricerca acquisisca notorietà mediatica. Proprio per questi motivi il ruolo dello specialista del patrimonio è fondamentale anche nel campo della comunicazione, per riuscire ad affermare il giusto equilibrio tra le esigenze mediatiche e ciò che il ricercatore stesso intenda comunicare.

SERVIZI AGGIUNTIVI O ESSENZIALI?

Si devono ad Alberto Ronchey, ministro per i Beni culturali e ambientali tra il 1992 e il 1994 nei Governi Amato e Ciampi, alcune norme (L. 4/1993) che per la prima volta, in maniera allora innovativa, introdussero i servizi per i visitatori, ancora oggi definiti e spesso considerati ‘aggiuntivi’, invece che essenziali: bookshop, biglietterie, visite guidate, caffetterie, affidati prevalentemente a grandi gruppi, divenuti di fatto monopolisti, non senza forme di sfruttamento di giovani laureati.

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Non sono mancate le proteste contro queste riforme, spesso rivendicando il ritorno alla gestione diretta (peraltro alquanto inefficiente lì dov’era garantita) piuttosto che verso nuove e più moderne forme di gestione. Ciò che a poco a poco si è andato affermando è l’idea che bookshop, caffetterie, ristoranti, spazi giochi per bambini o relax, wifi libero, stazioni di ricarica dei cellulari, audioguide, toilette attrezzate, servizi di baby sitting e dog sitting sono parte essenziale di un progetto culturale complessivo di qualità e devono contribuire a rendere la visita una esperienza culturale arricchente, piacevole, stimolante ed emozionante. Trovo ad esempio inconcepibile che ancora oggi in luoghi significativi della cultura italiana ci siano ristoranti che offrano il cibo tipico di una stazione di servizio dell’autostrada o di un centro commerciale, del tutto incoerente con le peculiarità del territorio, nonostante i richiami al mito.

È solo attraverso servizi culturali di qualità che si può sviluppare un vero processo di democratizzazione della cultura e interrompere quel circolo vizioso che vede i cittadini sempre più distanti dal patrimonio culturale inteso nella sua globalità e la classe politica occuparsi poco di cultura perché è confusa con i privilegi elitari e non è sentita tra le priorità dei cittadini-elettori. Tutte le statistiche dimostrano che la partecipazione alla vita culturale riguarda una fetta sempre più ridotta della società ponendo un reale problema democratico e che le spese in cultura sono di gran lunga inferiori a quelle per la ristorazione o la cura del corpo. È necessario provocare un corto circuito, possibile solo con un vero e proprio impegno etico e civile da parte degli specialisti nel porre al centro le persone, a partire dai bambini.

In questa sede, non credo sia opportuno riferirmi ai grandi musei e parchi archeologici, ai più importanti monumenti e alle principali città d’arte (colpite come Venezia dall’over tourism), ma preferisco insistere sul contributo diffuso offerto in Italia allo sviluppo locale, culturale, sociale ed economico dalla formazione di una nuova imprenditoria impegnata in progetti innovativi, attenti, cioè, al rapporto con le comunità locali e promotori di un turismo colto (che non significa d’élite) e sostenibile. Una nuova generazione di professionisti, attivi singolarmente o in piccole imprese, va introducendo notevoli novità con l’offerta differenziata di servizi nel campo della comunicazione, della didattica, nelle attività museali, dell’editoria, dei prodotti multimediali, delle ricostruzioni multimediali, del web, delle App e negli altri servizi ad alto contenuto tecnologico, nel turismo, nelle rievocazioni storiche e in mille altre attività.

Si nota negli ultimi anni, pur tra mille difficoltà, una straordinaria vitalità, fatta di nuove competenze, energie, passioni, che stanno portando alla creazione di nuove figure professionali, impensabili solo pochi anni fa. Sparse per l’Italia sono diffuse tante esperienze poco note. Realtà che il sistema pubblico dovrebbero favorire, indirizzare, coordinare, monitorare, ma che invece spesso ostacola frapponendo mille difficoltà burocratiche. Deve essere chiaro, infatti, che parliamo di lavoro e di alta qualificazione professionale, non certo solo di volontariato, che è una straordinaria risorsa del Paese, ma non è sufficiente.

Purtroppo, l’ancora grave mancanza di lavoro (e la prevalenza del lavoro precario, poco garantito e spesso sottopagato) nei settori dei Beni culturali provoca non solo una diffusa insoddisfazione e un clima di incertezza, ma sollecita anche diffidenze e rancori e provoca chiusure, oltre a favorire una grave contrapposizione verso le associazioni di volontariato. Effettivamente, in una situazione caotica, nell’ancora poco esatta definizione delle figure professionali dei Beni culturali e dei relativi requisiti, il volontariato rischia di essere, o almeno di apparire, sostitutivo del lavoro professionale e non, come invece dovrebbe essere, integrativo e di supporto. Non bisogna nascondere – e anzi bisogna denunciare – un uso spesso improprio del volontariato.

Ma ritengo – e so di dire una cosa non condivisa da tanti – che sia un clamoroso errore contestare le associazioni di volontariato, che a livello nazionale e locale, svolgono una funzione straordinariamente importante per sensibilizzare la cittadinanza attiva, la classe politica e l’intera opinione pubblica ai temi del patrimonio culturale, in tal modo contribuendo non solo alla sua conoscenza, tutela e valorizzazione ma anche alla creazione di migliori condizioni per sviluppare lo stesso lavoro nel campo della cultura. In campo medico i volontari non sostituiscono i medici o gli infermieri, ma svolgono tante attività di supporto e si impegnano anche in significative raccolte di fondi per la ricerca. I volontari possono e devono essere nostri alleati, non certo nemici. Il terzo settore – che peraltro non va frainteso con il mero volontariato, ma rappresenta un modo diverso di fare impresa – costituisce, a mio avviso, una grande risorsa, finora poco sfruttata, anche per il mondo dei beni culturali.

La Scuola Nazionale del Patrimonio e delle attività culturali ha avviato un censimento delle comunità impegnate in forme di tutela sociale, valorizzazione e gestione del patrimonio culturale. Si va insomma lentamente superando un’impropria contrapposizione tra pubblico e privato, dando concretezza anche a quanto previsto dal principio di sussidiarietà sancito dall’art. 118 della Costituzione. Semmai il conflitto è tra interesse privato e interesse pubblico: quest’ultimo deve essere sempre difeso e garantito, ma va definitivamente superata l’idea tanto diffusa – come ho già detto – di considerare sinonimi pubblico e statale. Quella privata, peraltro, non è una realtà monolitica: accanto al ‘profit’ c’è l’ampio e articolato universo del ‘no profit’, fatto di fondazioni, associazioni, piccole, medie e grandi realtà del terzo settore, impegnate nel recupero di siti e monumenti condannati al degrado e all’abbandono, sparsi in tutto il territorio nazionale, che mai il sistema pubblico sarà in grado di gestire in maniera esclusiva, restituendoli alle comunità locali e ai visitatori, creando occasioni di lavoro e di piccola economia sana e pulita.

LA GESTIONE DAL BASSO DEL PATRIMONIO CULTURALE, UN BREVE VIAGGIO NELL’ITALIA VIRTUOSA

Potrei raccontare tanti esempi. Mi limito a proporre solo poche tappe di un possibile viaggio nell’Italia virtuosa della gestione dal basso del patrimonio culturale, che peraltro ho già proposto in altre sedi.

A Palermo non possiamo prescindere dal grande monastero di clausura di Santa Caterina di Alessandria. Dopo il trasferimento delle ultime suore, il monastero e la splendida chiesa barocca erano rimasti chiusi e praticamente inaccessibili, finché il complesso è stato affidato alla gestione della cooperativa Pulcherrima Res per iniziativa di don Giuseppe Bucaro. I ragazzi della cooperativa e del servizio civile non solo organizzano visite guidate, accompagnando i cittadini e i turisti nelle celle, nelle cucine, nelle dispense e lungo i percorsi un tempo accessibili solo alle suore di clausura, ma, grazie alla riscoperta delle antiche ricette segrete dei dolci prodotti dalle suore, hanno dato vita alla pasticceria “I segreti del chiostro”, nella quale realizzano dolci di grande qualità (anche estetica), con i cui proventi riescono a gestire anche una mensa per le persone in difficoltà, capace di ben 360 pasti al giorno. Oggi circa settanta persone a vario titolo lavorano e operano nel monastero. Tutela e cura del patrimonio culturale si sposano così con la rivitalizzazione di una porzione del centro storico, con la creazione di occupazione, con il turismo culturale e anche con l’impegno sociale.

A Napoli, città che da anni sta vivendo un’interessante fase di risveglio culturale e sviluppo turistico, sono attive molte realtà. Tra queste il Centro Studi Interdisciplinare Gaiola onlus, che ha recuperato un autentico pezzo di “paradiso marino” nel Parco Sommerso di Gaiola, parte dell’Area Marina Protetta, strappandolo al degrado e alla distruzione e trasformandolo – sempre in un clima di incertezza normativa – in uno spazio di ricerca e di formazione oltre che di turismo sostenibile.

Nel cuore della città, in via san Biagio dei Librai, un gruppo di giovani ha dato vita all’associazione ‘Respiriamo Arte’ e ha preso in gestione la Chiesa dell’Arte della Seta, nel Complesso dei Santi Filippo e Giacomo e la vicina Chiesa di Santa Luciella. Gli esempi napoletani potrebbero essere ben più numerosi: li ha studiati l’amico Stefano Consiglio, che in una recente indagine ha censito più di ottanta realtà impegnate nella gestione di beni culturali.

Napoli offre oggi un nuovo motivo di speranza. Il sindaco Manfredi ha accolto l’idea di dar vita finalmente a un museo della storia della città, che sarebbe il primo istituito in Italia.

È davvero incredibile che un museo di storia della città manchi a Roma, come a Londra, Amsterdam o Berlino. Come scrivemmo nella commissione Mibact-Roma Capitale che presiedetti nel 2014, non un altro «museo che si aggiungesse agli altri, numerosi, già presenti, non una galleria di oggetti, sia pur di pregio, ma un museo innovativo, tecnologico, ricco di idee più che di oggetti, capace di raccontare l’intera storia della città dalle origini fino ad oggi». Un museo che «dovrebbe costituire il luogo nel quale tutta la conoscenza relativa alla storia della città potrebbe essere ricomposta in un racconto unitario e in una prospettiva di alta promozione culturale». Un museo, insomma, dotato soprattutto di una visione, uno sguardo ampio sulla città, ricco di idee, storie, racconti, capace di porre al centro le persone e i luoghi, contrario alla bulimia delle cose, con una selezione accurata e rigorosa di pochi oggetti, opere e documenti e un uso intelligente delle tecnologie multimediali. Sono passati oltre dieci anni e nulla si è fatto.

Il caso più noto è però quello del Rione Sanità, con la cooperativa La Paranza che poco più di dieci anni fa ha preso in gestione le Catacombe di Napoli, i cui visitatori sono passati progressivamente da 3.000 a oltre 200.000 negli ultimi anni. I risultati positivi vanno ben oltre l’incremento dei visitatori, ma riguardano la rinascita di un quartiere molto problematico con la creazione di significative opportunità occupazionali, grazie alle tante altre attività collegate, l’Officina dei Talenti, il B&B ‘Casa del Monacone’, l’orchestra giovanile, la compagnia teatrale, la sala di registrazione, la casa editrice ecc., e soprattutto la Fondazione San Gennaro. L’impatto economico prodotto dal modello della Sanità è stato valutato in quasi 33 milioni a Napoli nel 2019. Alla Sanità si è andata costruendo una vera ‘comunità di patrimonio’.

La Paranza ha anche avviato una sorta di attività di disseminazione dell’esperienza della Sanità. Insieme ad altri piccoli soggetti, aveva dato vita all’ ATS Stramirabilis che ha gestito negli anni scorsi in un rapporto di partenariato pubblico privato con il Parco dei Campi Flegrei la Piscina Mirabilis, con risultati notevoli in termini di crescita dei visitatori e anche di crescita occupazionale. Purtroppo, tale esperienza si è interrotta recentemente, proponendo un elemento di riflessione. La gestione è stata ora presa da Coop Culture sempre in un rapporto di partenariato pubblico privato.

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Non mancano, infatti, le difficoltà. Queste piccole realtà imprenditoriali sono spesso fragili, per vari motivi: le dimensioni piccole o piccolissime, le debolezze amministrative e manageriali, le resistenze del contesto locale, l’isolamento, la solitudine, l’eccessiva dipendenza dalla politica e dal contributo pubblico, l’assistenzialismo. Ecco perché il successo è quasi sempre legato al possesso di alcuni requisiti, come l’impostazione professionale, ben oltre il volontariato, una maggiore solidità amministrativa e gestionale, una capacità promozionale e comunicativa, la retribuzione dei lavoratori, soprattutto la qualità e la sostenibilità del progetto e delle persone coinvolte, l’innovatività dei servizi offerti, la capacità di stabilire alleanze e l’allargamento della sfera di attività ben oltre i confini dei bandi pubblici.

In ogni caso, la gestione dal basso del patrimonio lancia un messaggio di ottimismo, attraverso l’impegno di grandi e piccole realtà diffuse nel Paese. Un messaggio da raccogliere e valorizzare. Sono sempre più convito che sia questo il vero patrimonio dell’Italia.

IN CONCLUSIONE

In conclusione, ritengo che sia necessario continuare a riflettere, come stiamo facendo in questo workshop, sul ruolo stesso del patrimonio culturale nella società contemporanea, sui principi costituzionali fondamentali di libertà della ricerca, di partecipazione, di promozione dello sviluppo della cultura, della libertà di pensiero, della libertà d’impresa privata, di sussidiarietà. È un dibattito che recentemente si è affievolito.

Si tratta per esempio di decidere se la Convenzione di Faro sia stata ratificata solo per essere messa in un cassetto, come peraltro è successo con la Convenzione sul Paesaggio, o per essere applicata; se il Codice dei beni culturali e del paesaggio debba essere rivisto alla luce dei profondi cambiamenti intervenuti; se si riesce a integrare l’attività dei due ministeri dell’università e della ricerca e della cultura; se si superano definitivamente le anacronistiche contrapposizioni tra tutela e valorizzazione; se si innovano profondamente i sistemi di gestione del patrimonio culturale, se si dà spazio, sostegno, indirizzo all’impresa culturale.

Si tratta di decidere, in definitiva, se l’Italia resta un paese fermo al Novecento o se finalmente intraprende la strada di un Paese moderno, libero, europeo anche nel campo del patrimonio culturale e del turismo, che metta al centro l’interesse pubblico, cioè l’interesse dei cittadini.

ABSTRACT

The essay analyzes the evolution of the protection, enhancement, and management of cultural heritage in Italy, highlighting the challenges and opportunities associated with a more inclusive and participatory approach. The author emphasizes the delay in considering enhancement and management compared to protection, insisting on the need to overcome the elitist and state-centric vision of heritage. The Faro Convention emerges as a turning point, promoting a more inclusive conception of cultural heritage based on the active participation of communities. The text also explores the role of cultural enterprises, the potential of sustainable tourism, and grassroots management experiences as virtuous models. Finally, it reflects on the urgent need to reform cultural policies and institutions to adapt them to contemporary social and economic transformations.

 

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