Leggendo i più recenti report sul livello di digitalizzazione delle Piccole e medie imprese (Pmi) italiane, emergono alcune considerazioni che, anche alla luce delle mie esperienze professionali sul campo, considero allarmanti e di grande importanza. I dati Istat del 2023 registrano come solo il 60,7 per cento delle Pmi italiane adotti almeno quattro delle dodici attività digitali considerate nel Digital intensity index (Dii), indicando quindi in generale un livello di digitalizzazione considerato di base.
Nel dettaglio, appena il 41,4 per cento delle Pmi fa uso di software gestionali, solo il 25,7 per cento sfrutta l’analisi dei dati e appena il cinque per cento delle imprese con almeno dieci addetti adotta tecnologie di IA. Simile fotografia ci viene restituita dal Report “Sme Digital Growth IndeX 2024” che vede l’Italia retrocedere nel 2024 dal diciannovesimo al ventunesimo posto su questo fronte: «l’Italia registra un punteggio del 36,1 per cento, ben al di sotto del 40,2 della media Ue e con un distacco dai Paesi più avanzati ancora più ampio rispetto all’anno precedente»
Sempre utile ricordare che il novantacinque per cento delle imprese italiane è una microimpresa, esono esattamente 4.314.961, cioè realtà composte fino a nove addetti. Inoltre, bisogna interrogarsi sul significato di processo, o meglio, di strategia di digitalizzazione. Quest’ultima richiede di porsi criticamente rispetto all’azienda e al suo funzionamento avviando una generale revisione sia dei processi sia delle modalità con le quali le aziende affrontano il mercato di riferimento.
Un approccio consapevole che richiede generalmente un soggetto terzo che accompagni l’imprenditore e/o il manager nel ripensamento critico e costruttivo del funzionamento della stessa impresa, possedendo la capacità, nel caso, di riprogettare aspetti di questo funzionamento. Anche attraverso l’adozione di strumenti digitali capaci di creare valore in diversi ambiti: maggiore efficienza ed efficacia, migliore comprensione dei mercati, ottimizzazione dei processi interni, inclusi quelli core, oltre a una più avanzata raccolta, analisi e reportistica dei dati.
D’altronde chi fa consulenza sa bene che qualsiasi trasformazione digitale presuppone in realtà una trasformazione dell’intera azienda in tutti i suoi aspetti, come peraltro ben rilevato, giusto per fare un esempio, nel “2023 Mid-market Technology Report” di Deloitte, in cui tre quarti dei tech-leader intervistati sostiene che «investire nella trasformazione digitale significa utilizzare la tecnologia per imprimere un cambiamento fondamentale a tutti i livelli dell’organizzazione». La comprensione di questo concetto è fondamentale per le aziende che intendono sfruttare adeguatamente l’innovazione digitale. E qui casca l’asino.
Le grandi società di consulenza spesso non sono alla portata di piccoli soggetti come micro e piccole imprese, che vengono così lasciati quindi normalmente soli oppure si affidano a venditori di soluzioni informatiche che non tengono conto della premessa di sostanza di cui sopra. Sono ancora molto poche le boutique di consulenza con adeguato livello di competenze di management e nel digitale nonché tariffe abbordabili; nelle condizioni quindi di mettersi a disposizione di questo universo.
Come peraltro ben esplicitato nel quindicesimo Rapporto 2023-24 dell’Osservatorio management consulting di Confindustria-Assoconsult, che certifica come solo l’otto per cento (in valore) dei progetti di consulenza a supporto del digitale verso le imprese è portato avanti da società di consulenza di piccole dimensioni. Una svolta in questo senso apporterebbe benefici enormi e finalmente l’approccio sarebbe di stampo strategico e non di investimento digitale per singoli scopi, pensando che questo possa da solo risolvere problematiche di varia natura.
A riprova vengono utili i recenti dati dell’Osservatorio innovazione digitale nelle Pmi della School of Management del Politecnico di Milano, dove emerge che il sessantacinque per cento delle Pmi italiane dichiara di aver collaborato con soggetti esterni nei propri progetti di trasformazione digitale. Un terzo si è rivolto agli studi professionali giuridici ed economici, principalmente per la gestione di attività amministrative, circa l’ottanta per cento, e per la ricerca di strumenti di finanziamento, il quarantuno, mentre solo il sedici per una consulenza strategica.
Interessante sottolineare che tra le Pmi che dichiarano di non aver fatto ricorso ai professionisti nei propri progetti di trasformazione digitale, l’ottantacinque per cento afferma di non ritenerli gli interlocutori idonei a questo tipo di attività. Un voucher per la riprogettazione digitale potrebbe sostenere le micro e piccole imprese nell’adozione di un approccio strategico, avvalendosi di competenze consulenziali dedicate: facile da ottenere e immediato da utilizzare. D’altronde – e questo è il secondo tema rilevante – permane la difficoltà di riuscire a fruire di supporto finanziario per affrontare tali costi causa l’eccessiva burocrazia e la poca chiarezza nei programmi di supporto alla digitalizzazione, ancora ostacoli difficili da superare.
Lo stesso Osservatorio della School of management del Politecnico di Milano riporta che tale ostacolo alla digitalizzazione è messo in luce dal ventotto per cento degli intervistati (tutte Pmi). Annoso tema che vorremmo trovasse – anche sulla base di pochi ma comunque presenti casi di successo – una risposta definitiva.
Terza questione, la più conosciuta e sbandierata, – per quanto assai vera – è la problematica nel reperire risorse adeguatamente competenti nel digitale. Al netto delle tante proposte e considerazioni fatte da tutti i report citati – in larga parte anche condivisibili – poco o nulla ho visto sul favorire e innescare un circuito virtuoso con i nostri sistemi universitari, avvicinando questi mondi anche grazie a una più decisa e mai tardiva spinta con maggiori incentivi fiscali inerenti l’utilizzo sia dei Contratti di ricerca sia di dottorati industriali e attività di R&D in generale in collaborazione con il mondo universitario.
Una sorta di super bonus centodieci ma questa volta rivolto alla creazione di Pmi sempre più competitive, anche grazie alle competenze del mondo universitario, capaci di spingere in alto il nostro Pil grazie a un approccio strategico e sinergico delle tante belle realtà legate allo sviluppo economico e all’innovazione che popolano il nostro paese.
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