Noa e Mira Awad sono amiche da molti anni. La loro amicizia, divenuta poi col tempo sodalizio artistico più volte, non è qualcosa di scontato. Noa, israeliana di origini yemenite, e Mira, palestinese con cittadinanza israeliana, si esibiranno stasera sul palco del festival di Sanremo, sulle note di Imagine di John Lennon che verrà cantata in tre lingue: inglese, arabo ed ebraico. Un messaggio di pace e un’apertura forte a una possibilità alternativa, come cantavano in coppia all’Eurovision Song Contest del 2009 con There Must Be Another Way. Quell’edizione è rimasta nella storia in quanto la prima e unica volta che Israele è stato rappresentato anche da una cittadina palestinese. In quel periodo Noa e Mira pubblicarono anche un album insieme.
Se per la cantante israeliana questa è la quinta volta al Festival di Sanremo, la prima fu esattamente trent’anni fa nella quarantacinquesima edizione della kermesse del 1995, per Mira è un debutto. A poche ore dalla loro performance all’Ariston abbiamo parlato con loro per farci raccontare speranze, difficoltà e scelte.
L’intervista a Noa e Mira Awad
Quando avete ricevuto l’invito per il festival e quanto tempo avete impiegato ad accettare?
Noa: Non molto tempo fa in realtà.È stata una grande sorpresa. Per me Sanremo, cantare sul palco dell’Ariston, rappresenta un grande onore. Sarà la mia quinta esibizione, ma è sempre un’emozione.
Mira: Per me è la prima volta invece. Sono molto felice di questa opportunità.
Avete scelto di cantare Imagine di John Lennon. Non è la prima volta che la fate, cosa rappresenta per voi?
N: L’idea è arrivata da Carlo Conti e dall’organizzazione di Sanremo. Ovviamente siamo contentissime di cantare quel brano. Io l’ho registrato per la prima volta diversi anni fa, nel 1999, con l’artista algerino Khaled. E da allora, l’ho cantata in molte altre occasioni, sempre in ebraico, arabo e inglese. E quindi, per noi, non si tratta di una vera propria novità. Siamo abbastanza legate a questo brano. Specialmente in questi tempi, è chiaro che assuma un ruolo più importante che mai. A causa della situazione tra israeliani e palestinesi, ma non solo. Spesso tendiamo a dimenticarci che ci sono tanti conflitti in ogni parte del mondo. E tutti hanno bisogno della nostra attenzione, della nostra compassione e della nostra solidarietà.
Cosa ricordate della vostra partecipazione congiunta all’Eurovision Song Contest del 2009? Ancora oggi rappresenta un unicum.
M: Sì, è stato qualcosa di speciale. Non era mai accaduto prima che Israele fosse rappresentata anche da un’artista palestinese. Il mio ricordo di quell’esperienza non può che essere estremamente positivo.
N: Anche in quel periodo c’era un conflitto in corso tra Israele e Palestina e il titolo della nostra canzone vale ancora oggi: There Must Be Another Way.
Entrambi però siete spesso vittime del vostro stesso coraggio. Ricevete critiche da entrambi i lati per la vostra amicizia e collaborazione che dura da anni. Vi siete mai sentite in qualche modo scoraggiate?
M: Sì, molto spesso in realtà. È molto difficile esporsi in continuazione. Uno dei motivi è il fatto che i commenti negativi, soprattutto sui social, sono quelli che fanno più rumore di tutti. Leggerli può, alla lunga scoraggiarti. Tuttavia, dietro le quinte, ci sono tante altre persone che ti supportano e ti inviano i loro messaggi. Sono proprio quelli che ci spingono a continuare a lottare affinché il mondo cambi.
L’anno scorso a Sanremo ci sono state varie polemiche riguardo al fatto che la musica non debba essere politica. Secondo voi, la musica può avere un ruolo sociale e politico?
N: Sinceramente non credo abbia alcun senso dire che la musica non debba essere politica. Chi ha il potere di dire cosa debba o non debba essere la musica se non l’artista stesso? Ora, certo, un’organizzazione come Sanremo può anche dire: “Su questo palco preferiamo che gli artisti non facciano dichiarazioni che siano offensive o violente nei confronti degli altri”. Ma io credo che, a prescindere, qualsiasi cosa un artista faccia abbia implicazioni politiche. Sia che esso lavori per qualcuno, o che abbia una libertà limitata, che abbia paura di far sentire la propria voce per ripercussioni, cosa che accade in molti luoghi, oppure, come dovrebbe valere per chiunque, che sia una persona libera di dire ciò che vuole.
In sintesi, se dici qualcosa prendi posizione, ma anche quando non dici nulla, lo fai. Non è che se non dici qualcosa, non sei politico. Il silenzio è molto politico. Vuol dire lasciare che le cose si svolgano e rimangano come sono. Penso che questo abbia portato ad alcune delle più grandi tragedie della storia: non che le persone cattive facciano qualcosa, ma che le persone buone non facciano nulla. Quindi, sì, penso che un artista e ogni essere umano debba avere la libertà di scegliere cosa fare con la propria voce, cosa fare con la propria arte, e, sì, è quello che noi, entrambi, abbiamo sempre fatto.
Qual è il messaggio che vorreste passasse dalla vostra esibizione di domani sera?
N: Prima di tutto, penso che sia molto importante per le persone vederci entrambi sul palco insieme. Due artiste di entrambi i lati della barricata. Io e Mira non siamo d’accordo su ogni cosa, anche se siamo amiche da venticinque anni e abbiamo fatto tanti concerti e progetti insieme. Abbiamo molto in comune, ma abbiamo anche opinioni diverse. Tuttavia, non lasciamo che questo modo differente di vedere alcune cose ci separi. E allora eccoci qui, tutti e due, insieme sul palco, ad alzare la voce, e a dire che c’è la possibilità di immaginare un mondo migliore.
M: Mi piacerebbe che le persone ricominciassero a guardare le cose con complessità. Penso che ci siamo abituati a guardare le cose in bianco e nero, in modo superficiale, senza dibattito. Sui social media si va avanti con gli slogan. Vorrei che con la nostra esibizione le persone ci guardino e che sì, è complicato. È una situazione molto complessa. Però quando si sceglie la semplicità, si tende a propendere da una parte, perché è più facile. Allora si contribuisce al conflitto e alla guerra.
N: Sai, siamo esseri umani. Alla fine, siamo esseri umani, e siamo creature complesse. Io, per esempio, sono di origini yemenite e ho un aspetto molto più “arabo” rispetto a Mira. Il modo in cui parliamo inglese, le tre lingue in cui cantiamo, tutto il nostro lavoro si basa su una sfida al modo semplicistico in cui le persone vedono le cose. Vogliamo aprire le loro menti ad altre possibilità di guardarsi l’un l’altro, il mondo, le loro vite.
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