Il 15 febbraio 1975 in centinaia scesero in piazza a Trento. L’indagine partita dalla morte di una donna dopo un aborto che portò al sequestro di 647 cartelle cliniche di un ginecologo
Cinquant’anni fa, il 15 febbraio 1975, le strade di Trento furono attraversate da una delle più partecipate manifestazioni femministe della storia italiana. La protesta nacque da un fatto di cronaca locale destinato a diventare emblematico: un’inchiesta per aborto clandestino che coinvolse 263 donne trentine. Attraverso preziosi documenti d’archivio Sara Zanatta, ricercatrice della Fondazione Museo storico del Trentino, ricostruisce quella giornata e il contesto storico che la generò.
Come nacque quella protesta?
«Tutto iniziò nel 1972, quando una donna trentina morì per le conseguenze di un aborto clandestino. Ne seguì un’indagine a carico del ginecologo Renzo Zorzi, già indagato qualche anno prima a Bolzano. Nel 1973 vennero sequestrate 647 cartelle cliniche dal suo studio in via Belenzani a Trento: la perizia ginecologica portò all’incriminazione di 263 donne per aborto clandestino, un reato che all’epoca prevedeva dai due ai cinque anni di carcere. Le indagate provenivano principalmente dall’Alto Adige, dalla Lombardia, dal Veneto e naturalmente dal Trentino».
Quale fu la reazione delle donne trentine?
«A differenza di altri casi simili, come quello di Padova in cui una donna si autodenunciò trasformando il processo in tribuna politica, le femministe trentine si rifiutarono di esporre le donne a una doppia violenza: quella della pratica clandestina dell’aborto e quella del giudizio pubblico per averlo scelto. Non vollero trasformare il processo da giudiziario a politico. La manifestazione del 15 febbraio 1975 fu enorme: partita da un’organizzazione locale, fece da cassa di risonanza per gruppi femministi da tutta Italia che confluirono su Trento».
Come si concluse l’inchiesta sulle 263 donne?
«L’iter processuale ebbe una serie di rallentamenti. A ottobre del 1974 vennero emanati gli ultimi rinvii a giudizio e la linea difensiva puntò a dimostrare che in tutti i casi si fosse trattato di aborto naturale. In realtà il processo vero e proprio non si celebrò mai. È interessante notare come questa vicenda si intrecci con il dibattito parlamentare di quegli anni: proprio mentre a Trento si sviluppava l’inchiesta, in Parlamento veniva depositata la prima proposta di legge sulla depenalizzazione dell’aborto».
Come si inseriva questa vicenda nel contesto del femminismo italiano?
«Eravamo in piena seconda ondata femminista, concentrata sull’autodeterminazione della donna, sul diritto al divorzio e all’aborto. La prima proposta di legge per la depenalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza, firmata dall’ex partigiano e radicale Loris Fortuna, era stata depositata proprio nel 1973. Il caso trentino arrivò sulle prime pagine nazionali, intrecciandosi con il referendum sul divorzio e il dibattito sull’aborto: la maxi-inchiesta trentina divenne uno dei casi emblematici che alimentarono il dibattito pubblico sfociato poi nella legge 194 del 1978».
Trento, all’epoca, aveva già una sua tradizione femminista?
«Sì, ed è un dato interessante: qui nacque uno dei primi gruppi femministi italiani, una comune di ragazze in via Belenzani che si chiamava “Cerchio spezzato”, dal simbolo che avevano scelto. Praticavano l’autocoscienza, un metodo arrivato dall’America che consisteva nel raccontarsi ed elaborare la propria condizione di oppressione in ambito familiare, lavorativo e sessuale. Il loro manifesto politico, alla fine degli anni ’60, aveva un titolo ancora oggi significativo: non c’è rivoluzione senza liberazione della donna».
Che documenti conservate di quella protesta alla Fondazione Museo storico del Trentino?
«Nella nostra cineteca abbiamo il Fondo Casetti, dal nome di un ex preside delle scuole Bronzetti che ha documentato anni di movimentismo trentino. Le immagini sono straordinarie: mostrano i volti dell’epoca, i capelli, i fiori disegnati, le donne con i capelli corti, i ragazzi con le macchine fotografiche. C’è un momento particolarmente significativo in piazza Cesare Battisti, quando vengono bruciati dei simulacri politici, cartelloni con i volti degli esponenti della Democrazia Cristiana, in un rito che richiama i roghi delle streghe. Non a caso uno degli slogan più famosi era “Tremate, tremate, le streghe son tornate”».
Come legge quel momento storico, in retrospettiva?
«Il femminismo ha una caratteristica che hanno pochi altri movimenti sociali: è un fenomeno carsico, che vive di emersioni e immersioni. Se oggi non dobbiamo più batterci per certi diritti, lo dobbiamo alla lotta di quelle donne. Il femminismo attuale abbraccia nuovi contenuti, parla di intersezionalità, identità di genere, violenza, discriminazioni razziali, abilismo, corpi non conformi, disparità salariale. È diventato più inclusivo. E se quello era il femminismo del “Tremate, tremate”, oggi abbiamo “Siamo il grido fortissimo e feroce di tutte quelle donne che non hanno voce”. L’impressione è che questo episodio sia stato un po’ rimosso dalla memoria del territorio: sarebbe interessante raccogliere testimonianze di chi era presente in piazza quel giorno o ne ha memoria diretta».
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