Per Bolsonaro la resa dei conti è vicina: dopo circa tre mesi di analisi delle prove raccolte dalla Polizia federale, il titolare della Procura generale della Repubblica Paulo Gonet ha rinviato a giudizio l’ex presidente, insieme ad altri 33 indagati, con l’accusa di aver preso parte a un tentativo di colpo di stato per impedire il ritorno al potere di Lula dopo le elezioni del 2022.
Secondo la Procura, il piano, battezzato «Pugnale verdeoro», era stato «architettato e portato all’attenzione» di Bolsonaro, che aveva «dato il suo avallo». E prevedeva l’assassinio di Lula (per avvelenamento), del suo vice Geraldo Alckmin e del giudice Alexandre de Moraes. E a sua volta il piano faceva parte di una trama più grande, chiamata «Operazione Coppa 2022», tesa a screditare il sistema elettorale, promuovere azioni golpiste e mobilitare settori delle forze armate in un tentativo di rottura istituzionale. Il tutto sotto l’attenta guida di Bolsonaro e del suo candidato a vicepresidente, il generale Braga Netto.
Tra le prove accumulate nel corso di quasi due anni di indagini, ci sarebbe anche il discorso che Bolsonaro avrebbe letto se il golpe fosse riuscito, con tanto di proclamazione dello stato d’assedio, trovato sia nella sede del Partito liberale che sul cellulare di Mauro Cid, il suo ex aiutante di campo le cui dichiarazioni, rilasciate nel quadro di un accordo di collaborazione con la Procura, hanno svolto un ruolo fondamentale nelle indagini. Un’ulteriore conferma, secondo la Pgr, di come l’ex presidente esercitasse un totale controllo sull’organizzazione criminale con l’obiettivo ben chiaro di restare al potere con tutti i mezzi possibili.
Sarà ora il Supremo tribunale federale a stabilire se esistono elementi sufficienti per avviare un processo penale, ma nessuno in Brasile nutre il minimo dubbio al riguardo. L’arresto di figure come l’ex consigliere speciale di Bolsonaro Filipe Martins e il generale Augusto Heleno mostrano chiaramente come la Corte suprema abbia già optato per una linea di estremo rigore. In concreto, la denuncia di Gonet sarà esaminata – e, si presume, accettata all’unanimità – dalla prima sezione del Stf, di cui fanno parte, oltre al relatore Alexandre de Moraes, Flávio Dino, Cristiano Zanin, Cármen Lúcia e Luiz Fux, anche se non mancano pressioni per coinvolgere nella decisione tutti gli 11 ministri della Corte suprema (tra i quali invece c’è chi voterebbe a favore dell’ex presidente).
In ogni caso, è solo questione di tempo perché per Bolsonaro si aprano le porte del carcere, e per un periodo assai lungo: fino a 43 anni. Lunga è del resto anche la serie di accuse di cui l’ex presidente e gli altri 33 imputati, di cui 23 militari, dovranno rispondere: associazione a delinquere armata, tentativo di sovversione violenta dell’ordine democratico, colpo di Stato, danneggiamento aggravato con violenza, minaccia grave ai beni della federazione e deterioramento del patrimonio storico.
È anche probabile che il processo si concluda entro la fine del 2025, in maniera da evitare pericolose interferenze con le elezioni presidenziali del 2026.
A questo punto a Bolsonaro non restano molte carte da giocare per sfuggire alla galera, a parte forse rifugiarsi nell’ambasciata di un paese disposto a dargli protezione. Secondo i suoi stessi sostenitori, la denuncia della Pgr toglierebbe forza anche al progetto di amnistia per i golpisti dell’8 gennaio su cui l’estrema destra stava tessendo da tempo la sua tela al Congresso. E che doveva essere anche una delle parole d’ordine delle manifestazioni contro Lula annunciate per il prossimo 16 marzo, in un momento in cui il consenso nei riguardi del presidente ha raggiunto il livello più basso di sempre durante i suoi tre mandati, crollando negli ultimi due mesi – secondo un sondaggio condotto da Datafolha – dal 35% al 24%.
Resta ora da vedere quanto l’incriminazione di Bolsonaro possa incidere – rafforzandola o indebolendola – sulla mobilitazione di un’estrema destra apparsa estremamente rinvigorita dalla vittoria di Trump.
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