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il revival della Grande Crisi


I cinque segnali storici di crisi individuati da John Galbraith sono già tutti presenti: cattiva distribuzione del reddito, fragilità delle strutture bancarie e societarie, squilibri nei pagamenti, politiche economiche inadeguate e scarsa informazione economica. Se dovesse esplodere la bolla dell’intelligenza artificiale ci ritroveremmo in una nuova grande crisi

L’attuale concentrazione di ricchezza, potere e tecnologia richiama le dinamiche che portarono al crollo del 1929. John Kenneth Galbraith, nel suo classico The Great Crash (1954), descrive come l’euforia speculativa e la cattiva distribuzione del reddito abbiano creato un sistema instabile, pronto al collasso.

Hyman Minsky, con la sua teoria dell’instabilità finanziaria, ha ulteriormente approfondito questa dinamica, sostenendo che «la stabilità è destabilizzante». La speculazione finanziaria, alimentata da aspettative autoavverantesi, spinge i mercati a livelli insostenibili.

I cinque segnali 

Oggi, i cinque segnali storici di crisi individuati da Galbraith – cattiva distribuzione del reddito, fragilità delle strutture bancarie e societarie, squilibri nei pagamenti, politiche economiche inadeguate e scarsa informazione economica – sono più attuali che mai.

Minsky sottolinea che l’instabilità è endogena nel capitalismo, in particolare quando ci sono fasi prolungate di stabilità che incoraggiano comportamenti speculativi e l’assunzione di rischi eccessivi, che aumentando la probabilità di un crollo improvviso.

Dalla stabilità alla crisi

Non esiste un indicatore univoco per identificare il Minsky moment, ma l’andamento del rapporto prezzo/utili (P/E), cioè il rapporto tra il prezzo delle azioni (stock) di una società e gli utili per azione della società (rapporto prezzo-utile), può segnalare squilibri pericolosi. Quale è il P/E giusto? Di norma si ritiene che 20 sia un buon rapporto, ma in realtà non esiste un giusto valore.

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I settori tech possono arrivare a valori tra 30-50; i settori maturi tra 10-20; il mercato in generale tra 15-20. Inoltre, un basso rapporto non sempre indica un affare, così come un valore alto non sempre significa sopravvalutazione.

Il punto economico è il seguente: quando in un breve lasso di tempo abbiamo variazioni importati di valore e utili (incerti), quando ci si accorge di avvicinarsi alla soglia superiore, le attuali big-tech US superano la soglia di 50, una soglia troppo lunga per l’investitore medio, potrebbe scattare la tesaurizzazione o la preferenza per la liquidità (l’astensione all’investimento). Come scrisse Minsky: «La stabilità finanziaria porta all’euforia, l’euforia porta alla speculazione e la speculazione porta alla crisi».

La bolla dell’AI

Chi e cosa crea l’attuale “bolla” finanziaria? L’AI (Intelligenza Artificiale) è spesso descritta come una rivoluzione economica, ma il suo impatto è incerto. Essendo un bene intermedio, la sua crescita dipende dalla domanda di beni di consumo.

Paul Krugman, premio Nobel per l’economia, ha messo in guardia dal rischio di una eccessiva fiducia nella capacità dell’AI di generare crescita sostenibile: «Le tecnologie non creano automaticamente prosperità, serve una distribuzione equa dei benefici».

Inoltre, gli effetti dell’AI sulla crescita del PIL sono ancora dibattuti e potrebbero essere inferiori alle aspettative, senza scordare i rischi socioeconomici, tra cui il rafforzamento del settore militare, la concentrazione di potere nei mercati e la cosiddetta “disoccupazione tecnologica”. Se usciamo dalla narrazione mainstream, tutte le innovazioni tecnologiche sarebbero uniche e spettacolari – Industria 4.0 e AI -, il progresso tecnico, in realtà, sembra aver rallentato rispetto ai periodi storici di grande innovazione.

Come evidenzia Robert Gordon in The Rise and Fall of American Growth, l’innovazione attuale, pur essendo avanzata, non ha avuto l’impatto economico delle rivoluzioni industriali precedenti.

Trump è aggressivo perché l’economia è debole?

Considerato che il potenziale Minsky moment è ubicato negli Stati Uniti, forse l’aggressività economica di Trump potrebbe essere spiegata dalla debolezza economica e finanziaria US, tanto più che il divario tra economia reale e finanza è enorme: l’indice azionario US500 è cresciuto di oltre 4.600 punti dal 2000, mentre il PIL è aumentato solo di 100 punti.

«Quando il rendimento del capitale supera la crescita economica, le disuguaglianze aumentano in modo sistematico» scrive Piketty, cioè la ricchezza sta riducendo la domanda aggregata e aumentando la vulnerabilità dell’economia globale.

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Il mantra di Trump, Make America Great Again, sembra uno schema Ponzi su larga scala, sostenuto dalla speculazione finanziaria e dall’uso di criptovalute. Il capitale ha costruito un codice giuridico autonomo, emancipandosi dalle regole dello Stato e della democrazia.

Come affermava Karl Polanyi in La grande trasformazione, il mercato non può autoregolarsi senza creare devastazioni sociali. La prossima crisi potrebbe essere devastante, in un contesto in cui il capitale ha subordinato le istituzioni pubbliche. È possibile un intervento dello Stato per contrastare questa dinamica e restituire equilibrio al sistema economico? Oppure siamo destinati a un’altra crisi sistemica, come quelle già viste nel 1929?

La nuova geografia economica mondiale comincia a delinearsi, sebbene a una velocità inattesa. Trump ha messo l’acceleratore, ma forse questa “velocità” non ha alle spalle una macchina adeguata. Se solo l’Europa fosse un bambino meno viziato, capirebbe che è arrivato il suo tempo nella storia. Come possiamo chiedere così tanto a un adolescente? Questo è un compito per pedagoghi della politica.

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