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Sfashion weekend, festival della moda anti fast fashion


La moda come la vorremmo e come dovrebbe essere: sostenibile, equa, che rispetta i diritti dei lavoratori e l’ambiente. È quanto propone la prima edizione dello Sfashion Weekend, dal 21 al 23 febbraio a Milano, il festival che vuole ribaltare la narrazione comune della moda e fare luce sull’impatto del tessile sulle persone, sul pianeta e sulle comunità, organizzato da Fair e dalla campagna Abiti Puliti, in collaborazione con molte associazioni della società civile.

Talk, performance, spettacoli, una mostra e momenti di scambio sono gli ingredienti di questa iniziativa durante la quale si approfondiscono argomenti cruciali come lavoro e diritti, greenwashing e paradigmi economici, mettendo al centro una visione di moda compatibile con i limiti della Terra e la giustizia sociale.

Una contronarrazione

“Abbiamo organizzato questa tre giorni una settimana prima della Fashion Week di Milano proprio per offrire alla città una contronarrazione su questo mondo con un programma eterogeneo che mischia registri espressivi, artistici e linguistici – spiega Deborah Lucchetti, coordinatrice di Abiti Puliti -. Ad aprire venerdì l’incontro ’Come vestirsi in un pianeta in crisi?’ che vedrà la partecipazione di voci plurali ed esperte in materia. Sabato le lavoratrici di La Perla porteranno la loro esperienza diretta, raccontando una vertenza esemplare che ha messo al centro la difesa del lavoro, dei diritti e della dignità con un’attenzione costante al territorio”.

E poi, ancora, la performance collettiva dell’artista tedesca Vivien Tauchmann e quella dell’associazione Trama Plaza, danza, teatro e cartomanzia che raccontano la moda sostenibile, la mostra Handmade: le lavoratrici della moda, prodotta dalla ong olandese Schone Kleren Campagne, lo swap party organizzato dalla start-up Declout a ingresso libero su prenotazione.

Inquina, sfrutta, fa male

La fast fashion inquina, sfrutta i lavoratori, fa male al pianeta. Un recente rapporto di Greenpeace Africa e Germania rivela le dimensioni allarmanti dei danni sanitari e ambientali causati dal commercio globale di abbigliamento di seconda mano in Ghana: ogni settimana circa 15 milioni di vecchi vestiti arrivano al mercato di abiti usati di Kantamanto, nella capitale Accra, ma quasi la metà è invendibile.

Scarti nel continente

Il flusso di scarti tessili verso l’Africa subsahariana è un problema serio: secondo Oxfam il 70 per cento degli indumenti usati a livello globale finisce nel continente, e l’Africa orientale è disseminata di mercati informali. Per questo attivisti e designer locali stanno reagendo con iniziative per trasformare gli scarti in risorse e denunciare l’impatto della fast fashion.

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Fabbriche al limite della legalità

Ma i danni non si creano solo in fase di smaltimento degli abiti, partono dalla fase di produzione. Fabbriche al limite della legalità in Asia, dalla Cina al Bangladesh all’India, e in Africa sfruttano i lavoratori come schiavi, spesso impiegano anche bambini delle classi sociali più povere, usano in modo incontrollato sostanze chimiche irritanti e altamente inquinanti, senza alcuna protezione da parte dei lavoratori, e le riversano in canali e fiumi, anche qui senza alcun trattamento. E poi ancora detergenti, coloranti, Pfas, metalli pesanti e ftalati, regolati in Europa ma utilizzati liberamente nei Paesi di produzione.

ROCCHETTI DI FILO FOTO DI © SANDRO MICHAHELLES/SINTESI
ROCCHETTI DI FILO FOTO DI © SANDRO MICHAHELLES/SINTESI

Sostanze dannose e nocive

Da un test effettuato a dicembre dalla rivista tedesca ÖkoTest su alcuni capi di Shein, colosso mondiale con sede a Singapore ma i cui vestiti sono cuciti in circa 5 mila fabbriche cinesi, è stata rilevata la presenza di sostanze dannose per la salute e di ftalati vietati dalle normative europee, in concentrazioni 15 volte superiori ai limiti previsti dal Reach, il regolamento per il trasporto e l’uso delle sostanze chimiche. Solo per fare un esempio, un vestito per bambini ha rilasciato metalli pesanti come l’antimonio, alcuni sandali hanno invece evidenziato la presenza di Ipa, composti derivati da combustione, cadmio e piombo.

Costi ambientali

Sul fronte dell’impatto ambientale l’industria della moda è responsabile di circa il 10 per cento delle emissioni globali di gas serra, contribuendo in modo sostanziale al cambiamento climatico. Consuma una quantità enorme di acqua: 93 miliardi di metri cubi, un quantitativo che potrebbe soddisfare il fabbisogno idrico di 5 milioni di persone per un anno. Inquina: secondo alcune stime, la produzione tessile è responsabile del 20 per cento dell’inquinamento globale delle acque potabili, principalmente a causa dei processi di tintura e finitura dei tessuti.

Giusta transizione

“Con Sfashion Weekend vogliamo creare uno spazio di confronto corale – conclude Lucchetti -, per costruire insieme strategie che devono abbracciare la giusta transizione, da fare con urgenza e mettendo al centro i diritti dei lavoratori e l’alleanza con l’ambiente. Non ci stancheremo mai di ripeterlo: questo modello di sviluppo drenante che pone al centro i profitti a vantaggio di un pugno di attori deve finire”.



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