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Da Jalta a Riad: un ordine mondiale che spezza il ciclo


Il peggior incubo d’Europa si è materializzato a Riad, Arabia Saudita: Russia e America sono seduti allo stesso tavolo. Non succedeva da tre anni, da quando il presidente russo Vladimir Putin aveva sferrato il primo attacco all’Ucraina nel 2022, che poi si sarebbe trasformato in una guerra. Stavolta la questione è il conflitto con gli ucraini, ma non solo, c’è molto di più.

Le potenze europee storicamente impegnate a definire un ordine universale ora hanno chi lo ammaestra per loro, in casa loro. Non che l’abbiano chiesto. Ma quando c’è da agire il continente è sempre un po’ immobile. L’appeasement di Chamberlain durante la Seconda Guerra mondiale è l’esempio più coerente di questa mancanza di inerzia squisitamente europea.

Dalla rottura dell’ordine vestfaliano con il Congresso di Vienna e, dopo due conflitti mondiali, l’assetto UE è diventato il terreno di gioco su cui Paesi esterni al continente si sfidano a chi ha il cuore più magnanimo. Questo è frutto di un mondo sempre più multipolare dove l’Europa, invece di farsi protagonista, subisce la volontà di attori globali più influenti.

Risalendo fino alla Conferenza di Jalta, che in qualche modo aveva in sé i germi della Guerra Fredda, quello che oggi sembrerebbe un tentativo tra Donald Trump e Vladimir Putin di normalizzare i rapporti bilaterali tra i rispettivi Paesi, non risultava poi così prevedibile. Quindi come è possibile che i due antagonisti per eccellenza ora si strizzano l’occhio? Qual è l’ordine mondiale che si sta costruendo?

La Conferenza di Jalta

Ottant’anni fa, mentre la Seconda guerra mondiale volgeva al termine, si tenne una Conferenza a Jalta, in Crimea, per discutere l’assetto geopolitico post-bellico. Dal 4 al 11 febbraio 1945 alla presenza di tre grandi leader – il presidente britannico Winston Churchill, il presidente americano Franklin D. Roosevelt e Iosif Stalin per l’Unione Sovietica – si incasellò un nuovo ordine mondiale.

La divisione della Germania in zone di occupazione era stata una richiesta fortemente sentita dalla Francia revanscista. Tra le decisioni prese durante l’incontro, la creazione di una Germania Ovest, capitalista e alleata dell’Occidente, e una Germania Est, comunista e sotto il controllo sovietico, è quella che più ha fatto da simbolo della Guerra Fredda. 

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Alla fine non solo Berlino, ma tutta l’Europa risultava divisa – fisicamente e ideologicamente – diventando la spaccatura tra due blocchi in crescente tensione. Una cortina di ferro che si stagliava su quel Paese che era stato a lungo il motore europeo e la principale sfida alla stabilità dell’Occidente.

Mentre per Mosca era essenziale limitare il controllo americano sull’Europa orientale e le sue zone di influenza, a Washington era alta la convinzione di un qualche ruolo salvifico posseduto dalla nazione a stelle e strisce. D’altronde la dottrina Truman era chiara circa la linea di contenimento da adottare nei confronti di chi avesse anche solo tentato di aderire al blocco comunista e l’URSS vedeva negli Stati Uniti una minaccia al prestigio politico internazionale per la forte alleanza che la lega alle democrazie occidentali.

Mosca e Washington sono simili

Le recenti dichiarazioni del Maga su Volodymyr Zelensky che ha definito un “dittatore mai eletto” e un “comico mediocre” e l’intesa con Vladimir Putin, hanno accelerato la ridefinizioni di un assetto fortemente in crisi in un terreno che è nuovo. Un gioco che ancora molti osservano e non capiscono. O forse non vogliono capire.

Trump e Putin condividono una visione realista della politica internazionale, in cui gli interessi nazionali prevalgono sulla cooperazione globale. Trump sta cercando di raffreddare la retorica anti-russa e la minaccia fatta più volte di ridurre il sostegno alla NATO è conveniente per la Russia che vuole indebolire l’Occidente compatto. Ridurre la presenza militare americana in Europa rappresenta un vantaggio anche nel conflitto russo-ucraino per Putin.

La Russia vuole sfruttare le divisioni interne delle democrazie occidentali pressando Kiev e l’Europa orientale e manipolare le fratture politiche negli Stati occidentali. Una strategia il cui obiettivo è rafforzare la posizione del Paese, da tempo relegato fuori dalla scena principale.

L’Europa che verrà

Un continente zoppicante e a fasi alterne potremmo definire così il Vecchio Continente. Tra la Germania che si prepara alle elezioni e riacquista l’appellativo di malata d’Europa, tra una Giorgia Meloni che dall’Italia sceglie di rimanere immobile in mezzo a Russia e America che vanno a braccetto e una Francia che non ha le forze per gestire la guida europea, gli scenari sono incerti.

Tuttavia questa incertezza generale non è altro che un sintomo di un morbo più profondo. Un pò come quando la temperatura si alza e la febbre ci avverte che una qualche infezione ha colpito il nostro organismo. La chiameremo permacrisi questa condizione. Un’instabilità strutturale e persistente in cui l’Europa sembra incapace di definire una direzione chiara. 

Dalla crisi finanziaria del 2008 fino ad arrivare alla pandemia, l’Unione Europea è rimasta ferma ad un equilibrio in cui la faceva da padrone distribuendo lezioni a destra e manca. Il colpo è poi arrivato con il conflitto russo-ucraino e le tensioni energetiche che hanno destato il continente sul ruolo che deve assumere e che non può rimanere lo stesso del Congresso di Vienna.

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Adesso che non è più il fulcro della definizione dell’ordine mondiale è bene che strutturi una strategia unitaria per mantenere un ruolo negli scenari geopolitici e dimostrare al mondo, come sosteneva Giordano Bruno, “se son sveglio, mi desto”.





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