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Biodinamica, autoctoni, cultura: la formula contemporanea della resilienza


A Slow Wine Fair parliamo tanto di packaging, ma non ci dimentichiamo che il cuore del vino è tra le vigne, nel suolo fertile e nella biodiversità.

E che, spesso, le varietà autoctone contengono risposte alle sfide del nostro tempo: la resilienza ai cambiamenti climatici, un minore grado alcolico, la capacità di dare vini che rispecchino il territorio.

A tre esperienze diverse abbiamo dato voce in Demeter Arena, nel convegno “Viti dimenticate: la passione dei vignaioli biodinamici Demeter recupera le varietà autoctone”, un’occasione unica per scoprire vitigni che dal dimenticatoio stanno risalendo la china, e diventando ambasciatori della viticoltura regionale, non solo in Italia, ma anche all’estero.

A introdurle, Michele Lorenzetti, biologo ed enologo della cantina Terre di Giotto (a Gattaia, sull’Appennino Toscano, nel comune di Vicchio del Mugello), che mostra come la «cura della complessità» sia caratteristica comune alle vignaiole e vignaioli che adottano le pratiche biodinamiche.

Villa Papiano e l’importanza dei vitigni accompagnatori

Francesco Bordini è con suo fratello e le sue sorelle anima di Villa Papiano, a Modigliana, nell’Appennino di confine tra Emilia-Romagna e Toscana.

«Dalla crisi della fillossera, 100 anni fa, i nostri vigneti sono molto cambiati. Si è persa gran parte della biodiversità, delle varietà locali. I vignaioli, qui e in tutto il mondo, si sono via via sempre più avvicinati al monovarietale. L’apice più noto è forse la situazione della Borgogna. Tra i cuori pulsanti del nostro territorio c’è il sangiovese, che sempre è stato associato ad altre varietà di vitigni “accompagnatori”, come il trebbiano, il ciliegiolo, e altri ancora. Nei nostri vigneti, insieme al sangiovese abbiamo anche viti di negretto e di balsamina, quelli che in Toscana cambiano nome e si chiamano colorino e canaiola».

«La cultura locale, favorendo questi vitigni accompagnatori, costituiva piccole arche di Noé, e allo stesso tempo riusciva a garantire la stabilità e l’equilibrio del vigneto, la sua resistenza agli imprevisti. Negli anni Settanta i vitigni accompagnatori furono un po’ scalzati, in quanto non “bravi produttori di alcol”: oggi, che sono ricercate gradazioni alcoliche non così elevate, sono una risposta modernissima alle tipologie di vini che sempre più spesso vengono ricercate sul mercato».

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Al di Là del Fiume, e la riscoperta dei vitigni sconosciuti: alionza, montuni e sciaslà

Danila Mongardi lavora con suo marito nella cantina Al di Là del Fiume, a Marzabotto, nel Bolognese.

«A metà Ottocento, in questa zona, c’erano almeno 80 tipi di vitigni autoctoni, ma ne abbiamo persi tantissimi. Nel lavoro che abbiamo portato avanti in azienda, abbiamo cercato di ripartire anche da lì. Oggi, ad Al di Là del Fiume coltiviamo vitigni più noti come albana e barbera, ma anche vitigni misconosciuti, come il montuni, l’alionza, lo sciaslà… Non li vinifichiamo in purezza, ma li utilizziamo per conferire ai nostri vini profumi e sapori caratteristici».

«Di alcuni dei vitigni che coltiviamo, come l’albana e l’alionza abbiamo ritrovato tracce in documenti storici del 1300, e noi siamo più che fieri di averli all’interno delle nostre produzioni. L’albana era il vino dei nostri contadini, quello delle pause dal lavoro nei campi: abbiamo voluto recuperarlo anche, o forse soprattutto, con un intento culturale, con la voglia di far conoscere al pubblico i vitigni della nostra storia. Dobbiamo avere il coraggio di ripartire da lì».

Tenuta Santa Lucia, e quel famoso dimenticato da tutti

Paride Benedetti porta l’esperienza di Tenuta Santa Lucia, azienda di Mercato Saraceno nel Forlivese.

«Quando parliamo di autoctoni, dobbiamo anche interrogarci sul fatto che abbiano un senso dal punto di vista economico. Nella nostra azienda il vino si era sempre fatto, e davamo spazio ad albana, pagadebit, trebbiano… Poi la mia attenzione si è rivolta al famoso, una varietà a bacca bianca che era praticamente scomparsa, a dispetto del nome, ma nella quale abbiamo scoperto molti aspetti di interesse».

«Abbiamo fatto un’indagine approfondita, ritrovandone il nome in documenti papali, fino a ottenere il suo riconoscimento come Igt nel 2009 e come Doc nel 2022. Le prime bottiglie prodotte non avevano il nome del vitigno, ma erano etichettate semplicemente come Vino Bianco. Oggi il vitigno è cresciuto, è stato ripreso da molti viticoltori all’interno della Doc a Mercato Saraceno, ma anche nella zona Igt. Il famoso oggi è una chicca, un prodotto unico con una forza intrinseca importante. È parte della nostra identità, e il percorso che abbiamo fatto nel suo recupero come un percorso estremamente positivo, anche dal punto di vista economico».

Recuperare, perché…

A fine incontro, Lorenzetti torna sui motivi del recupero, che riassume così: «La passione, la voglia di difendere la biodiversità, la socialità e le tradizioni, di costruire la fertilità del suolo. Importante è anche evidenziare come il coltivarli ci consenta di essere meno aggressivi verso i nostri terreni e le nostre piante, perché sono meno esigenti».

Bordini dà qualche elemento aggiuntivo. «Oggi quel che va più di moda tra i vignaioli è dire: in cantina non faccio niente… Per farlo, però, bisogna partire da un’uva che sia perfetta, in grande equilibrio e grande grazia con il territorio in cui è prodotta. Un’uva così è la migliore alleata della mano invisibile in cantina. I vitigni autoctoni sono una risposta molto moderna, contemporanea a problemi come il global warming».

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Mongardi richiama l’idea di un dialogo necessario con il terreno, e della necessità di trovare un’armonia con l’ambiente circostante: «La nostra azienda agricola non aveva vitigni, e abbiamo dovuto iniziare tutto da zero, con un’indagine approfondita del terreno che ci apprestavamo a coltivare. La risposta sono stati i vitigni autoctoni: l’albana, la barbera, mentre con il sangiovese non abbiamo avuto successo. Se si fa un’analisi dettagliata del proprio terreno, se si agisce in armonia, in equilibrio col terreno, se si dialoga con lui e lo si ascolta, siamo sulla strada del biodinamico. Il biodinamico è dialogo, è un nuovo modo di parlare con il terreno, attraverso gli autoctoni».

Organizzata da BolognaFiere da un’idea di Slow Food, Slow Wine Fair è la manifestazione internazionale dedicata al vino buono, pulito e giusto. Dal 23 al 25 febbraio 2025, in contemporanea con SANA Food, convegni, masterclass, e l’esposizione di circa 1000 cantine italiane e internazionali e oltre 5.000 etichette. Iscriviti alla newsletter per essere aggiornato su tutte le novità. #SlowWineFair2025





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