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cosa manca per il riuso potabile dell’acqua depurata


In Europa il fabbisogno di acqua è costantemente aumentato negli ultimi 50 anni, comportando una diminuzione del 24% delle risorse idriche rinnovabili disponibili a livello pro capite. Tra le cause principali che incidono sulla disponibilità della risorsa, oltre alla crescita della domanda, ci sono gli effetti del cambiamento climatico, che si manifestano con un generalizzato aumento delle temperature e una sempre più evidente alterazione dei modelli meteorologici.

L’Italia è una delle aree del continente in cui questi effetti sono più evidenti, essendo sottoposta a rischi maggiori in termini di eventi siccitosi, frequenza delle ondate di calore e cambio del regime delle precipitazioni: meno frequenti, più abbondanti e concentrate nello spazio.

Parlando di scarsità di precipitazioni, la serie storica di lungo periodo (1952-2023) relativa alla percentuale del territorio italiano colpito da “siccità estrema”, mostra come negli anni l’Italia abbia affrontato numerosi eventi siccitosi, alcuni dei quali particolarmente severi e che hanno riguardato vaste aree del Paese. Negli ultimi vent’anni la percentuale del territorio nazionale interessata da siccità estrema è cresciuta del 120% rispetto allo stesso valore relativo ai cinquant’anni precedenti.

Un altro dato che desta particolare preoccupazione è la sempre maggior frequenza con cui questi fenomeni avvengono. A partire dal 2000, in un arco temporale di quasi 25 anni, l’Italia è stata colpita da quattro principali eventi legati alla siccità, rispettivamente nel 2002, nel 2012, nel 2017 e nel 2022 (si veda il Position Paper n. 267).

In questo quadro, destinato a peggiorare per effetto dei cambiamenti climatici, si comprende l’urgenza di individuare nel riuso una delle soluzioni per mettere in sicurezza la continuità degli approvvigionamenti idrici.

Ad oggi, il riuso idrico è promosso principalmente per utilizzi non potabili, ovvero per gli usi agricoli e industriali, oltre che per la ricarica delle acque sotterranee o superficiali, ciascuna con una disciplina e sistemi di gestione differenziati, oltre che con gradi diversi di accettabilità sociale.

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Storicamente la principale applicazione per il riutilizzo dell’acqua depurata è stata l’irrigazione agricola (colture agricole, vivai e floricoltura), seguita dal riciclo e dal riuso industriale (acque di raffreddamento, acque di reintegro per caldaie, acque di processo, acqua di elevata qualità per l’industria delle componenti elettroniche).

Tuttavia, nel mondo, le crescenti pressioni antropiche sulla disponibilità della risorsa idrica, aggravata dagli effetti del cambiamento climatico, stanno portando ad all’attenzione un ampio ventaglio di possibili impieghi alternativi per le acque reflue depurate.

La fattibilità del riuso idrico deve evidentemente poggiare sulla presenza di un sistema depurativo adeguato ad affinare le acque reflue sottoposte a trattamento e di infrastrutture a valle per la distribuzione della risorsa ai soggetti beneficiari. Spesso però le possibilità di riutilizzo sono limitate dai costi delle infrastrutture per il trasporto e lo stoccaggio dell’acqua recuperata verso i punti di utilizzo (ovvero, tipicamente, dalla distanza dall’impianto di trattamento).

Il riuso nel Regolamento europeo e in Italia

Nell’Unione Europea, il Regolamento 2020/741, entrato in vigore il 26 giugno 2023, fornisce i requisiti minimi per il riuso a scopo irriguo in agricoltura, mentre per le altre possibili destinazioni (ambientale, industriale e civile) ha delegato ai singoli Stati membri il compito di stabilire le condizioni per garantirne la sicurezza. In particolare, il testo normativo fornisce specificazioni in merito ai valori limite di torbidità, domanda biochimica di ossigeno (B0D5), solidi sospesi totali (SST), e parametri di contaminazione microbiologica quali Escherichia coli e Legionella, differenziati in base alla classe di qualità dell’acqua affinata nonché alla coltura cui sono destinate e alla modalità di consumo dei prodotti da essa derivati. Il Regolamento prevede inoltre che il riutilizzo necessiti di specifica autorizzazione allo scarico, in conformità con la legislazione nazionale, e introduce l’obbligo di formulazione di un piano di gestione dei rischi, valutazione dei rischi per l’ambiente, per l’uomo e gli animali.

Un ulteriore richiamo al riutilizzo è presente anche nel testo di revisione della Direttiva per il trattamento delle acque reflue urbane, adottato dal Consiglio europeo nel novembre del 2024.

L’Italia è stata tra i primi Paesi a sviluppare regolamenti per il riuso di acque reflue trattate. La prima normativa nazionale interamente dedicata è rappresentata dal Decreto Ministeriale n.185 del 12 giugno 2003 (D.M. 185/2003), emanato in recepimento dell’art. 26 del D. Lgs. 152/1999. Differentemente dall’approccio normativo comunitario, che si è focalizzato essenzialmente sul riutilizzo a scopo irriguo, il D.M. 185/2003 regola anche altre destinazioni d’uso quali quello civile ed industriale. Relativamente ai requisiti di qualità, il D.M. prevede che le acque reflue, all’uscita dall’impianto di recupero, debbano essere conformi agli specifici valori limite riportati in allegato al decreto stesso, consentendo, nel caso di riutilizzo industriale, di poter concordare tra le parti i limiti in funzione delle specifiche esigenze dei cicli produttivi, nel rispetto comunque dei valori previsti dal D.lgs. 152/1999 per lo scarico in acque superficiali. A tal scopo, il titolare della rete di distribuzione è chiamato ad effettuare il monitoraggio ai fini della verifica dei parametri chimici e microbiologici delle acque reflue recuperate che vengono distribuite e degli effetti ambientali e agronomici del riutilizzo. Il D.M. riconosce infine all’autorità sanitaria la facoltà di disporre divieti e limitazioni all’attività di riutilizzo, e, all’autorità competente, il controllo sull’impianto di recupero delle acque reflue.

Dal punto di vista normativo, date le differenze tra il D.M. 185/2003 ed il Regolamento europeo, il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE) ha elaborato una bozza di un nuovo Decreto del Presidente della Repubblica (D.P.R.) al fine di superare la disciplina attualmente vigente e rivedere in modo organico l’impianto normativo di settore.  Tale decreto è orientato a regolamentare il riutilizzo per molteplici scopi, tra cui anche quelli ambientali. I fini ambientali, in particolare, possono riguardare, tra le altre cose, il recupero di corsi d’acqua in stato qualitativo non buono, la ricarica di falde acquifere non ad uso umano e la regolazione dei flussi d’acqua che presentano criticità legate ad eventi siccitosi.

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Ad oggi, dunque, nel nostro Paese, come a livello europeo, manca una normativa quadro che non solo disciplini in modo chiaro il riuso a fini potabili, ma che ne possa promuoverne lo sviluppo qualora le condizioni ambientali e di contesto lo rendano la soluzione più adatta.

I costi del riuso

In linea generale, i costi del riuso devono essere confrontati con il costo di forniture alternative, piuttosto che con il costo unitario attuale dell’approvvigionamento idrico esistente. Affinché il riutilizzo sia economicamente sostenibile per il gestore idrico, i maggiori ricavi (o i risparmi sui costi) dovrebbero essere simili o superiori ai costi aggiuntivi delle tecnologie di riutilizzo e ai costi di monitoraggio, considerando anche le politiche di sostegno (ad es. sussidi), o i possibili ricavi generati da una domanda non soddisfatta in situazioni di scarsità.

L’uso non potabile dell’acqua recuperata (ad es. irrigazione, industriale) richiede una qualità della risorsa non molto diversa da quella dell’effluente di un tipico impianto di trattamento secondario o avanzato. Pertanto, l’avvio di un programma di riutilizzo non potabile dell’acqua recuperata in genere non richiede un significativo sforzo aggiuntivo in termini economici. Il riutilizzo potabile dell’acqua necessita invece di un trattamento maggiore e barriere all’interno del sistema di depurazione che determinano un aggravio in termini di maggiori costi.

Oltre alla tipologia di trattamento, le altre variabili chiave che influenzano i costi del riuso riguardano:

  • la qualità dell’acqua in ingresso e la sua capacità di mantenersi nel tempo: se proveniente direttamente dalle acque reflue, vi è una maggiore probabilità che detenga una qualità più elevata rispetto a quella proveniente da un prelievo indiretto dopo la diluizione in acqua superficiale;
  • le esigenze di stoccaggio per gestire l’eventuale stagionalità della domanda;
  • la qualità dell’effluente richiesta in base alla legislazione locale e all’uso finale;
  • il pompaggio dell’acqua da trattare e la distribuzione dell’acqua trattata;
  • le fonti energetiche disponibili e i relativi costi;
  • i costi di smaltimento del concentrato;
  • l’impronta di carbonio del riutilizzo dell’acqua e quella risparmiata da fonti idriche alternative.

In sintesi, le componenti di costo da considerare nell’ambito di un progetto di riuso dovrebbero riguardare i costi di tecnologia (sia di capitale sia operativi), i costi ambientali ed energetici (comprensivi della valorizzazione delle emissioni di CO2) e i costi di trattamento e smaltimento dei sottoprodotti. A questi vanno poi aggiunti i costi sociali, in termini di stakeholder engagement della cittadinanza e di campagne di comunicazione, e quelli di monitoraggio.

A causa del potenziale impatto sulla salute umana del riuso idrico, un monitoraggio completo della qualità dell’acqua e dell’efficacia del trattamento nelle diverse fasi del processo è infatti fondamentale, con le linee guida dell’OMS che impongono obbiettivi di prestazione per il riuso potabile particolarmente sfidanti data l’alta concentrazione di patogeni nelle acque reflue. Gli obbiettivi di prestazione microbica, in particolare, comportano l’identificazione di combinazioni appropriate di processi di trattamento al fine di non superare determinate soglie per l’uso potabile.

L’accettazione sociale: un ostacolo da superare

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Tra i principali ostacoli che si frappongono ad una messa a regime del riuso delle acque reflue vi è l’atavica diffidenza delle persone nei confronti dell’acqua di riuso.

È pertanto cruciale analizzare non solo le cause che possono generare ostilità e diffidenza nei confronti del riuso – spesso causate più da sensazioni viscerali, come il disgusto, che da considerazioni scientifiche razionali – ma anche quelle che sono le caratteristiche che concorrono all’accettazione di tali tecniche ovvero le esperienze di successo nella costruzione del consenso presso i cittadini. La chiave per affrontare questa sfida risiede nel riconoscere le cause principali del rifiuto e nell’adottare strategie comunicative efficaci per promuovere una maggiore accettazione.

Le preoccupazioni per la salute sono al centro delle resistenze, con timori legati alla presenza di contaminanti e patogeni nell’acqua trattata. La percezione del rischio per la salute umana emerge come uno dei fattori più rilevanti nelle decisioni di accettazione del riuso idricoNonostante le evidenze scientifiche dimostrino che, con trattamenti di potabilizzazione appropriata, i rischi per la salute pubblica sono trascurabili, le preoccupazioni persistono.

Connesso con il tema della percezione del rischio, anzi, quasi una sua versione parossistica, è il “fattore disgusto” (yuck factor nella letteratura di riferimento) che rappresenta una barriera psicologica ancora più insormontabile.Esso è radicato in associazioni culturali e psicologiche profonde legate all’idea di bere acqua precedentemente usata come refluo, una sensazione che non si limita alla semplice ripugnanza, ma che è legata a un meccanismo psicologico ancestrale di evitamento dei patogeni.Vi è la tendenza a collegare il consumo di acqua di riuso a quello di un’acqua proveniente da scarichi o rifiuti umani; ciò evoca immagini negative che attivano una risposta emotiva immediata e forte.

La reazione viscerale di repulsione è spesso associata all’idea di “toilet to tap” (dal bagno al rubinetto) e può essere resistente alla logica scientifica. È importante notare che, mentre la tecnologia può eliminare ogni traccia di contaminazione, non può cancellare l’associazione mentale sottesa, evidenziando la necessità di approcci comunicativi che vadano oltre la mera rassicurazione tecnica. Si tratta, insomma di riconfigurare la narrazione dell’intero impianto tecnologico.

Le persone con un livello di istruzione inferiore e quelle con una maggiore sensibilità alla contaminazione tendono a manifestare maggiori livelli di disagio rispetto all’idea di riutilizzare l’acqua.

L’accettazione sociale: conoscenza e fiducia

Ed è proprio in questa dimensione personale e culturale, refrattaria alle trattazioni scientifiche, che richiama fortemente ad una rinnovata fiducia nel sistema di approvvigionamento idrico e nelle autorità che gestiscono il trattamento delle acque diviene elemento centrale per favorire l’accettazione pubblica dell’acqua di riuso. Il pubblico esprime spesso preoccupazioni riguardo alla capacità delle istituzioni di garantire la qualità e la sicurezza dell’acqua riciclata, soprattutto in presenza di norme e linee guida che non sono universalmente accettate. Anche se la fiducia non ha un effetto diretto sul comportamento, essa gioca un ruolo di mediazione tra la percezione del rischio e l’accettazione, permettendo diridurre l’impatto della dimensione emotiva in favore di un approccio basato sulle evidenze scientifiche e la razionalità. Insomma, la fiducia può aiutare a ridurre l’impatto delle errate percezioni (si veda anche il Position Paper n. 149).

Anche la conoscenza del ciclo idrico, la consapevolezza circa lo stato di disponibilità idrica nel proprio territorio e di qualità, oltre che una maggiore familiarità con le tecnologie utilizzate si configurano come fattori abilitanti l’accettazione pubblica. Ciò suggerisce la necessità di disseminare, nel corso della realizzazione di progetti di riuso informazioni non solo relative alle tecnologie e alla sicurezza circa il consumo umano, ma anche sull’intero ciclo idrico. Infatti, in contesti di scarsità idrica, come durante periodi di siccità, le comunità sembrano essere più disposte a considerare il riuso idrico potabile come un’opzione desiderabile. Questo suggerisce che la percezione di scarsità dell’acqua unita a quella di necessità della stessa può influenzare l’accettazione, spingendo i cittadini a rivedere le proprie credenze.

Comunicare il riuso: dialogo permanente e attenzione al linguaggio

In questo contesto, la comunicazione deve fare parte di un percorso permanente non limitata alle fasi iniziali del progetto, trasparente e adattata ai diversi segmenti di pubblico, con una scelta di linguaggio adeguata. Un messaggio ben studiato non deve solo spiegare i benefici del riuso, ma anche riconoscere e affrontare direttamente le preoccupazioni legate alla salute e alla sicurezza, sottolineando il rispetto degli standard di qualità dell’acqua destinata all’uso umano.

È necessario porre cura particolare nel framing del messaggio, ad esempio privilegiando termini positivi e in grado di veicolare messaggi connessi con il tema della sostenibilità e che riportino l’acqua non solo al tema del consumo, ma all’intero ciclo idrico: non più “toilet-to-tap”, ma “acqua riciclata” o “acqua rinnovata” o NEWater, come il neologismo creato a Singapore, nazione nella quale si è stato adottato il riuso potabile.

In questa prospettiva, un’altra strategia consiste nel coinvolgere attivamente la comunità locali nel processo decisionale, offrendo al pubblico la possibilità di visitare gli impianti di trattamento, partecipare a dibattiti pubblici e provare direttamente il prodotto. In questo modo si può favorire la familiarizzazione con il processo e il prodotto, e ridurre le barriere psicologiche e culturali.

Coinvolgere il pubblico nelle fasi iniziali di pianificazione e decisione può aumentare la fiducia e il senso di proprietà del progetto, creando opportunità per il feedback pubblico e dimostrare come questo feedback viene incorporato nelle decisioni. Il coinvolgimento della comunità può essere previsto anche implementando programmi di monitoraggio rigorosi e trasparenti per la qualità dell’acqua, condividendo regolarmente i risultati dei test con il pubblico in un formato facilmente comprensibile (si veda anche il Position Paper n. 263).

Infine, è cruciale che le politiche di riuso idrico siano supportate da regolamentazioni rigide e da una volontà politica forte. La trasparenza istituzionale, insieme a una solida disciplina e alla garanzia del controllo, può contribuire a costruire la fiducia necessaria per superare le resistenze iniziali.

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a cura di Donato Berardi, Ellen Greggio (Bioreal), Daniele Renzi (Bioreal), Michele Tettamanzi, Samir Traini, Cosimo Zecchi



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