di Lorenzo Merlo
Si può pensare che un imprenditore di successo diventato politicamente potente possa ragionare e concepire la realtà e quindi la politica diversamente da come ha sempre fatto? Il suo America first, espressione che contiene una storia profonda e una politica precisa, ha anche il potere di tenere a bada e accudire l’elettorato lasciato indietro dalle amministrazioni che l’hanno preceduto.
L’amministrazione Biden sotto il sommo controllo delle lobby finanziarie e dello stato profondo ha tentato, forse per l’ultima volta nella storia, di sottomettere la Russia. Un progetto che rappresentava l’ultimo anello di una catena messa in atto dagli statunitensi al fine di mantenere la loro egemonia mondiale mai così incerta.
In realtà, la Russia a sua volta non era che un tassello, anche in questo caso forse l’ultimo necessario per arrivare a contenere l’esplosione economica, quindi anche militare, della Cina.
Il lato B dell’idea di annichilire o guinzagliare la Russia e tenere a bada la Cina era, a dir poco, esiziale. Come ho scritto in precedenza in altri due articoli (AUSA – Autarchici Stati Uniti d’America e Rischio manifesto) si trattava di due rischi. Il primo: non vedere rinnovato il monopolio del controllo sul mondo, con le sue ricadute economiche a vantaggio statunitense, elemento a sua volta primario per garantire longevità e benessere americano (anche se non per tutti); il secondo, forse di superiore importanza, l’eventualità di autarchia coatta, nel caso Russia, Cina e compagnia Brics(1) avessero preso il controllo economico del mondo per poi approfittarne applicando la legge del taglione. Desiderio in un certo senso legittimato dalla vergognosa collana di malefatte americane distribuite su tutta la geografia del mondo negli ultimi cent’anni.
Se gli elementi accennati delineano in qualche misura la ragione dei comportamenti messi in campo da Biden e dai suoi pupari, di tutt’altro ordine sono quelli che, in poche settimane di lavoro del neoeletto Trump, si possono raccogliere in una precisa costellazione che si staglia, più lucente delle altre, nel firmamento della realtà.
L’America first di Trump, oltre a essere un perno dei suoi ragionamenti è anche un diversivo, un mozzo intorno al quale far girare la giostra del suo luna park per scongiurare il rischio già citato di trovarsi in un paese costretto all’autarchia.
Per sua sorte, Putin e Xi Jinping, il primo per necessità, il secondo per cultura, pare, quantomeno in ambito internazionale, abbiano buttato a mare la retorica della sopraffazione e dell’esportazione di se stessi, che ha aleggiato e che è atterrata troppe volte sul mondo navigando e volando su flotte e squadriglie travestite da missionari a stelle e strisce.
Il segno e l’ascendente del presidente grande grosso e biondo sono tra di loro identici: fare affari, fare affari. Scalzando in un colpo l’intera retorica moralistica e di controllo – quella che a Bruxelles il falso parlamento vende a poco prezzo, quella che ormai un popolo crescente ha capito non valere niente – il piano di lavoro di Trump non può che essere gradito a Est dell’antico Muro di Berlino.
Partiamo dallo sfondamento rugbistico che il biondo presidente ha compiuto sul campo di gioco della guerra ucraina. Un modo di fare previsto anche dagli esperti della politica statunitense, in bretelle o tweed con Clarks, che è andato diretto al punto, cioè a negoziare con il dirimpettaio Vladimir i termini per un accordo di fine guerra. Non solo, se la meta portata a segno appena citata – tra l’altro rispettosa della promessa fatta ai suoi elettori di far finire il conflitto slavo-fratricida (checché ne dicano gli ucraini) – costituisce di per sé uno sconquasso geopolitico al pari di un’orca nel branco di foche, di pari scompiglio è stata l’esplicita estromissione dal tavolo degli accordi tanto di Zelensky, quanto dell’Unione Europea (attimo di pausa, che mi vien male solo a nominarla, a pensare a chi la guida e a constatare su che niente sta in piedi).
C’è Crozza in regia? Sì, perché l’indignazione indispettita che ha vestito la reazione di queste due figure – che in quanto a figure barbine sono maestre – aveva del divertente, anche forse un’anima alla Dario Fo, perché più che divertente era surreale. Hanno alimentato la guerra fino all’ultimo poro senza perdere neppure un quanto di energia da devolvere al conflitto in tutti i modi in cui questa poteva materializzarsi: armi, munizioni, carri, denari, tanto che pare perfino strano non abbiano mandato anche cristiani in mimetica.
Hanno dimenticato il nazismo ucraino, piazza Maidan, il “fuck the EU”(2), la guerra iniziata nel 2014, gli annosi avvertimenti di Putin in merito all’avvicinamento-accerchiamento Nato, hanno perciò timbrato a ceralacca l’inizio del conflitto nel 2021, e non hanno mai vacillato nel puntare il dito, anzi il jingle, su un solo punto, quello della diade invasore-invaso, come se la storia iniziasse in quel momento, come se non ci fosse altro da considerare.
Hanno stuprato i negoziati di Minsk che avrebbero potuto comportare la salvazione di un paese e di un popolo, e hanno tagliato la gola a quelli di Istanbul. Hanno sostenuto contrattacchi primaverili, tacendo poi sulla conseguente disfatta. Ne hanno fatte più di Bertoldo e ora si irritano per l’esclusione dai negoziati. Ma siamo sul palco di Casa Cupiello?
Se ogni espressione umana ha una ragione, un’architettura che la sorregge, una biografia che ne necessita, quella che Trump sta mostrando al mondo, tenendo presente la sua matrice di uomo d’affari, avrebbe una possibile spiegazione.
Donald: Goodmorning dear Vladimir, how are you?
Vladimir: Dobroye utro. Khorošo. E tu?
D: Senti Vladimir, facciamola breve, il tempo è denaro e così tante altre cose.
V: Ti sento in forma. Dimmi.
D: Allora: ti faccio uscire dalla guerra e per questo ti propongo un… cambio merce.
V: Sentiamo, purché l’Ucraina stia fuori dalla Nato e le terre conquistate sul campo rientrino nel confine della Federazione russa.
D: Lo sapevo. Si può fare. Oltre al fatto che non so quanto la Nato possa ancora andare avanti. Per dire che forse è una preoccupazione eccessiva. Non abbiamo più a che fare con l’Alleanza Atlantica della guerra fredda, del dopo muro di Berlino e scioglimento del Patto di Varsavia.
V: Questo era chiaro da decenni, è carino ci siate arrivati.
D: Non fare troppo sarcasmo sennò usciamo dal seminato. Dunque, dicevo, più banalmente, la Nato non è più quella che fino a ieri sembrava potesse spaccare il mondo come e quando voleva.
V: Certo, le cose stanno cambiando proprio mentre ne stiamo parlando. Dimmi, cosa avevi in mente?
D: Ti tieni le terre conquistate e magari anche le intere regioni russofone del Donbass e, Nato forte o Nato debole, l’Ucraina non ne farà parte.
V: Immagino voglia per te la ricostruzione del Paese.
D: Beh, va da sé. Tu non vuoi certo farlo, Donbass a parte naturalmente, e poi non vorrai mica che un affare di tale portata possa essere lasciato all’Unione Europea o all’Europa – non so neanche più come chiamare quel garbuglio senza bandolo – che non riesce a vedere la realtà, tanto che ancora vuole sostenere l’Ucraina fino alla vittoria. Ma come ragionano? È questo il valore aggiunto delle donne che la guidano?
V: Sarcasmo net avevamo detto.
D: Giusto. Né sarcasmo, né distrazioni. Restiamo sul pezzo. Ricostruzione a parte, che ci tocca senza possibilità di alternativa, dunque in questo nostro affare ha valore neutro, i giacimenti delle terre rare sotto il suolo ucraino, Donbass incluso, sono invece la cessione che, penso, tu sia costretto a fare.
V: Non potevi non passare questa strettoia. Va bene, lo avevamo previsto. Si può fare ma non senza contropartita.
D: Che sarebbe?
V: Non dirmi che a tua volta non l’hai messa in conto.
D: Ti riferisci alle sanzioni e ai beni bloccati?
V: Nientemeno.
D: Certo che era in conto. Anzi, scontato, ovviamente per quelli che fanno capo a noi.
V: Bene. Quasi quasi ti aiuto anche alle prossime elezioni.
D: Scherza poco che c’è davvero qualcuno che poi ci crede o che inventa le prove.
V: Giusto, viviamo in un cesto di vipere. Proseguiamo. Altro?
D: Eh sì. Dunque, sono diversi punti.
V: Vai col primo.
D: Israele.
V: Immaginavo. Continua.
D: Azzeri ogni interferenza diretta o indiretta a favore dei palestinesi, di Hamas e di Hezbollah.
V: Cioè dovrei mettere al guinzaglio l’Iran?
D: Nientemeno.
V: Non è come dirlo.
D: Certo, ma negli affari a questo punto si dice: sono problemi tuoi.
V: Conosco il criterio. Prosegui.
D: Significa che con Israele me la vedo io e basta. Dopo tutto questi decenni di conflitto e instabilità, ritengo sia legittimo arrivare a sistemare la faccenda medio-orientale. È vero, i palestinesi sono stati espropriati della terra che abitavano e in quell’enclave, tirata fuori dal cilindro degli inglesi, si sono trovati gente estranea in tutto e per tutto. Ma la storia ha ripetutamente dimostrato che a tutto ciò, ingiustizia o diritti a parte, lì e altrove nel mondo, non c’è soluzione equa. Dunque, fare capo alla pragmatica è praticamente divenuto un imperativo e soprattutto, per quanto possa apparire raccapricciante a molti europei, anche una modalità più saggia delle altre. Tutta una premessa per dire che non resta che eliminare uno dei due contendenti… e sappiamo quale ho in mente. Ecco perché c’entrano le atomiche dell’Iran e perché il tuo impegno a smorzare certi entusiasmi anti-israeliani e ani-statunitensi è fondamentale.
V: Come, in sostanza, a suo tempo fece il binomio Clinton-Nato, con la Jugoslavia e con il Kosovo?
D: Diciamo che si possono evincere delle similitudini con la situazione israeliana. Soprattutto, per parlar sintetico e chiaro, fa ancora testo il divide et impera.
V: Beh, sei piuttosto franco.
D: Le carte che si giocano in un affare sono sempre sincere. E in questo caso non sto giocando a poker, dove il bluff vale come la verità. E poi le fregature le prendono solo gli affaristi sprovveduti.
V: Più è tutto in chiaro più gli Stati Uniti possono avviare il nuovo corso e, magari, anche il processo di riduzione del debito pubblico, ora himalayano.
D: Ok, ma lasciamo perdere ora questi dettagli. Torniamo a noi, all’Ucraina.
V: Va bene. Però avresti dovuto aggiungere che sotto quelle terre che vorresti sfruttare pare ci siano giacimenti da leccarsi i baffi.
D: Più che avrei dovuto, avrei potuto. Non è che devo dirti tutto.
V: Bene, restiamo sull’affare.
D: Con la Siria ti lascio carta bianca, noi ce ne laviamo le mani. Vedrai tu come sostenere gli interessi della tua federazione.
V: Lo facevo anche prima, quando avevate le mani in pasta.
D: Insomma, le cose sono diverse ora. Giriamo pagina, se no restiamo qui a cincischiare e farfugliare e la situazione non cambia.
V: È strano che non hai ancora citato la Cina e la paventata dedollarizzazione.
D: Adesso ci arriviamo. Andare avanti a guerre non ci è più possibile. Il vostro multipolarismo è al momento troppo rigoglioso per pensare di affrontarlo in modalità classica. Noi prendiamo dall’Ucraina e dal Donbass le materie prime che ci interessano nella misura che concorderemo. E la Russia, non la secca più nessuno. E anche con la Cina, fino a ieri spauracchio permanente, credo si potrà convivere e fare affari.
V: Bel progetto. E l’Europa?
D: Se intendi l’Unione Europea, che posso dire? È praticamente senza testa. Durante tutta la sua esistenza sono emerse carenze che oggi stanno culminando in un crescente, forse inarrestabile, desiderio di sovranismo nazionale da parte dei suoi stati membri. Qualcuno potrebbe dire che è sul letto di morte, anche se l’accanimento terapeutico potrebbe tenerla in vita ancora lungamente. Più semplicemente, l’Europa non ha identità, quindi non ha sostanza, quindi non ha peso. Diciamo che non è una priorità occuparsi e preoccuparsi di cosa farà o dirà.
V: Non ti preoccupa che possa rientrare nel nostro raggio d’azione, che l’Eurasia possa diventare troppo potente?
D: Pensiero legittimo ma lontano. Occupiamoci di quelli vicini.
V: Il dollaro è uno di questi.
D: Altroché, ma la creazione di una valuta alternativa è più lontana. E, aggiungo, certamente critica. In sostanza penso non convenga a nessuno tentare di sostituire il dollaro.
V: Al momento, non si tratta di sostituirlo. La politica Brics, e perciò anche la nostra, è di favorire gli scambi entro il mondo Brics con le relative valute locali e magari anche di crearne una comune, ma anche di continuare a dialogare con il dollaro.
D: È un problema di cui certamente tratteremo, ma che per la sua dimensione non può stare in questi accordi sul fine guerra ucraina. Come pure la questione artica, di pari portata. E poi, se non soprattutto, con tutto il rispetto caro Vladimir, avrai ancora in te qualche goccia di sangue zarista, ma non puoi rappresentare l’intera politica Brics.
V: Avevo visto bene, sei in gran forma.
D: E non hai ancora visto cosa voglio fare a Gaza.
V: Beh, ho visto un breve video su cosa stai immaginando per quel tratto di costa mediterranea, mi ha colpito. Indignazione a parte, che mi sento costretto a lasciar fuori da questo nostro affare, in un certo senso, quel modo affaristico di fare, che non guarda in faccia a un intero popolo, che ha piantato in testa il chiodo dei propri interessi über alles, sarà un segno del nuovo paradigma geopolitico, come lo è il nostro multipolarismo rispettoso?
D: Puoi scommetterci. Business is business, il resto sono chiacchiere. Facciamo questo affare, per il prossimo si vedrà.
V: Vuoi dire che in affari non ci sono chimere?
D: Dotta sintesi, direi forse tipicamente russa, per quel poco che so. E aggiungerei che ci sono solo nelle ideologie.
V: Simpatico e operativo! Mi ricordi i tempi del Kgb, quando riuscivamo a costringere tutto l’infinito del mondo dentro lo scopo che ci eravamo prefissati.
D: Tempi d’oro per te. Anche allora c’era un popolo al quale non guardavate in faccia.
V: Allora non è vero che gli americani sono delle capre.
D: Eh sì, per fare affari è meglio conoscere il nemico.
V: Però non sai che questo l’aveva già detto Sun Tzu.
D: Sun Chi?
V: Niente, non fa niente.
D: Ok. Ci vediamo a Riyad per i dettagli.
V: Khorošo.
Note
- L’acronimo BRIC, risale al 2001. Esso deriva dalle iniziali dei paesi fondatori: Brasile, Russia, India, Cina. Nel 2010 si aggiunge il Sud Africa e l’acronimo muta in BRICS. Nel 2024 si uniscono all’Associazione altri Paesi. L’Indonesia, nel fa parte dal 2025.
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