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i casi Liguria e Catalogna


Tempo di lettura 5 minuti

Le due regioni di prima accoglienza hanno raggiunto nel 2024 il più elevato tasso di persone che si sono tolte la vita all’interno delle carceri nei rispettivi Paesi.

L’ultimo anno ha segnato un brutto record per la Catalogna e la Liguria. Le due regioni sul Mar Mediterraneo hanno contato un numero di morti all’interno dei propri istituti penitenziari che non lascia dubbi sul fatto che il carcere sia, non solo un luogo di privazione di libertà, ma di privazione di altri diritti, primo di tutti la salute. Le persone che si sono tolte la vita secondo i dati di Ristretti Orizzonti e del Dipartimento Catalano di Giustizia sono sette in Liguria e undici in Catalogna, con un ampio scarto in confronto alle altre regioni all’interno dei rispettivi Paesi.  

Numeri elevati, considerato che sia in Italia che in Spagna sono attive procedure per la valutazione del rischio suicidario applicate dal comparto medico all’ingresso in carcere e secondo criteri di livello regionale, nazionale e internazionale. E soprattutto, nonostante il fatto che all’interno degli istituti siano presenti psicologi, psichiatri e a volte intere equipe di specialisti impegnate nel ridurre il rischio suicidario. 

A Roma, lunedì 3 marzo, per reagire al silenzio della politica su temi prioritari quali il sovraffollamento nelle carceri, il difficile accesso dei detenuti alle misure alternative, per garantire l’affettività in carcere, i garanti territoriali delle persone private della libertà, regionali e provinciali, hanno indetto una giornata di mobilitazione nazionale in seguito all’appello diffuso durante la Conferenza nazionale, in cui si chiedono soluzioni giuridiche immediate sia alla politica che all’amministrazione penitenziaria.

Persone, non numeri. 

Si chiamava Hawaray, era entrato nel carcere di Genova Marassi per un piccolo furto compiuto nel 2023 e mentre era dentro, a causa di un litigio tra detenuti, si era visto prolungare la pena di alcuni mesi. Fino a quando per una punizione non è stato rinchiuso in cella di isolamento dove si è tolto la vita nel febbraio 2024.  

Si chiamava Moussa, il pizzaiolo ormai naturalizzato genovese, schizofrenico, che una volta entrato in carcere non ha mai ricevuto né una visita psichiatrica né una visita di un amico o conoscente, è stato tra gli ultimi a togliersi la vita nel 2024. 

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L’analisi pubblicata nel 2021 sulla rivista Lancet, che ha riunito i dati di 77 ricerche scientifiche sui suicidi in carcere in tutto il mondo per scoprire una volta per tutte le cause all’origine di questa tragedia, aveva già alcuni anni fa evidenziato come fattore critico l’assenza di visite sociali da parte di amici, parenti o familiari. Secondo la scienza, sarebbe quindi la cocente solitudine a impattare negativamente la salute mentale di chi è rinchiuso.

L’indagine del Dipartimento di Giustizia della Catalogna del 2024 sembra confermarlo. Secondo i dati raccolti, l’80% delle persone morte per suicidio tra il 2018 e il 2021 si trovava in isolamento negli ultimi sei mesi di vita. E mentre in Catalogna l’isolamento è un fattore di primo piano, in Liguria le pratiche per l’accesso alle visite sociali proibiscono a chi non è di nazionalità italiana di ricevere visite sociali e familiari.

In Liguria, come in Catalogna, il numero di detenuti stranieri arriva quasi al 50% del totale della popolazione carceraria e quattro su sette persone che si sono tolte la vita in Liguria erano di origine non italiana. Le lungaggini sono legate a documenti extra, traduzioni e certificazioni, che a volte risultano irreperibili, portano il detenuto ad attendere un tempo indefinitamente lungo per accedere alla prima visita sociale o telefonata dei parenti all’ingresso del carcere, momento riconosciuto di maggiore fragilità psicologica. 

Come nei casi di Moussa e Hawaray, l’autorizzazione alle visite non è stata concessa in tempo. 

Ornella Favero, di Ristretti Orizzonti, in prima linea sul tema, conferma: “I soggetti a più elevato rischio suicidario sono quelli che rimangono più isolati”. E descrive l’atmosfera attuale all’interno delle carceri: “Le persone, a causa degli elevati tassi di sovraffollamento a cui sono sottoposte, non si sentono ascoltate, si sentono numeri, si sentono abbandonate a se stesse”.

Continua: “Durante l’epidemia di COVID-19 si è autorizzata una telefonata al giorno di dieci minutie e una videochiamata a settimana per chi non svolge il colloquio. Dopo la pandemia in molte carceri la telefonata quotidiana è stata eliminata e invece riallacciare in tutti i modi i colloqui affettivi è l’unico appiglio vero per ridurre il rischio suicidario”.

Per quanto riguarda i migranti, conferma: “L’unica cosa che funziona per la nostra esperienza di Padova è la creazione di uno sportello apposito che faciliti l’espletamento delle pratiche burocratiche, perché i detenuti possano accedere in tempi brevi ai servizi più importanti per la loro vita detentiva”.

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Favero conclude: “A metà 2024 ci siamo rivolti al DAP Giovanni Russo per sensibilizzare la dirigenza sull’importanza cruciale dei colloqui affettivi. Ora, a pochi mesi dalle dimissioni di Russo, attendiamo che la nuova dirigenza mantenga la promessa di una circolare per il ripristino della liberalizzazione delle telefonate in tutte le carceri”.

Sovraffollamento e salute nell’ambito carcerario tra Liguria e Catalogna

Le due regioni affrontano oggi la stessa sfida del sovraffollamento interno agli istituti carcerari. In Liguria, il tasso di sovraffollamento attuale è di quasi il 130%, mentre in Catalogna la situazione è ancora peggiore, con una media che supera quella nazionale spagnola, già molto elevata, del 146%.

Già alcuni anni fa, nel 2016, una ricerca scientifica denominata M.E.D.I.C.S., realizzata dal team guidato da Roberto Monarca con i fondi del Ministero della Giustizia italiano, faceva emergere – grazie a un’indagine compiuta tra i diversi operatori all’interno delle carceri catalane – il tardivo intervento del personale medico nei casi di tentato suicidio e una scarsa preparazione del personale, medico e non, sul fronte della salute mentale. La ricerca evidenziava come il sovraffollamento rendesse sempre più difficile per il personale medico reagire e offrire la giusta attenzione ai detenuti. A quasi dieci anni dalla ricerca, poco sembra essere cambiato.

In Catalogna, secondo i dati forniti dal Dipartimento della Sanità, pochi medici (123) assistono quasi 8.000 detenuti con l’aiuto di 175 infermieri. Per quanto riguarda la salute mentale, sono presenti un totale di 23 psichiatri e 12 psicologi, ossia – facendo un rapido calcolo – uno psicologo per circa 650 detenuti. Un numero che spiega, in parte, il crescente ricorso agli psicofarmaci nel tentativo di gestire la popolazione carceraria.

I dati della Liguria non sono più favorevoli: tre ore di lavoro di uno psichiatra bastano per seguire cento detenuti, di cui ben 43 assumono regolarmente psicofarmaci ipnotici e sedativi. Questi dati celano storie vere che trasformano quotidianamente un luogo volto alla rieducazione in un ambiente in cui la punizione arriva a colpire la salute del detenuto, senza pietà e nella sua forma più estrema.

Approfondimento a cura di Laura Ghiandoni

Foto Credits “Web-doc Inside Carceri, Antigone e Next New Media”

Questo articolo è stato realizzato con il supporto di Journalismfund Europe





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