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«Lo sfruttamento dei carusi, la mafia e il fallimento della politica»


Storie di lavoro, di commercio e di polvere, ma anche di sfruttamento, di buio e di violenze. Sono quelle che racconta la scrittrice Natya Migliori nel suo ultimo libro: La gabbia e il cielo. Storia e storie degli ultimi minatori di Sicilia (Navarra Editore). Insieme ai fotografi Lello Fargione e Avarino Caracò, Migliori ha fatto un viaggio lungo tre anni tra le province di Enna, Agrigento e Caltanissetta, alla ricerca degli ultimi minatori in vita dell’entroterra siciliano; quell’entroterra che negli ultimi decenni si sta spopolando, ma che a cavallo tra Ottocento e Novecento ha reso l’Isola il primo produttore di zolfo al mondo. Ma a che prezzo? «Nelle miniere siciliane per quasi 100 anni c’è stato lo sfruttamento dei carusi (ragazzini, ndr), e questa è stata la pagina più drammatica», dice a MeridioNews l’autrice del libro. Che aggiunge un elemento poco noto: «Grazie alla ricerca documentaristica e storica che abbiamo fatto, abbiamo scoperto che non si trattava solo di maschi: c’erano anche le caruse». In Sicilia con il termine caruso o carusa si indica il ragazzino o la ragazzina che ha tra i 6 e i 14 anni.

«Sicuramente le femmine erano meno dei maschi – continua Migliori – e venivano portate via dalla miniera per prime, salvate dai matrimoni». L’autrice racconta al nostro giornale che «trovare testimonianze dirette di donne che hanno lavorato in miniera è stato impossibile: se qualcuna è in vita, non vuole parlare per vergogna e per pudore». Perché, oltre allo sfruttamento del lavoro minorile – che per di più veniva pagato una miseria – nelle solfare c’erano spesso abusi e violenze sessuali. «Alcuni articoli dell’epoca – dice Migliori al nostro giornale – riportano anche l’omicidio di un caruso vicino alla miniera di Trabia Tallarita, nel territorio di Riesi», nel Nisseno. «Prima è stato violentato e poi ucciso: questo perché dopo la violenza il ragazzino ha provato a scappare, quindi chi ha abusato di lui ha temuto di essere denunciato», racconta Migliori.

Durante il viaggio – fra le anse dei fiumi Imera, Platani e Salso, passando per Riesi, Serradifalco e Casteltermini – la scrittrice e i due fotografi hanno incontrato «gli ultimi minatori in vita di quella stagione, una specie in via d’estinzione». Una ricerca sul campo nella quale «gli stessi ex minatori ci hanno indirizzati verso i luoghi più significativi e ci hanno fatto conoscere le persone che potevano raccontarci delle storie». Tra l’altro Migliori ha scoperto che un pezzo dell’itinerario del suo viaggio «l’ha fatto anche Pippo Fava per un suo articolo sulle miniere di zolfo, pubblicato su I Siciliani». Nei primi decenni del Novecento, però, inizia il declino delle solfare siciliane, che appare irreversibile negli anni Cinquanta. Questo perché a cavallo tra i due secoli «è stato introdotto il metodo Frasch, che ha capovolto totalmente la situazione. Con questa tecnica – spiega l’autrice – non era più necessario fare carotaggi, scavi e provocare esplosioni, ma bastava inserire una sorta di cannula di acciaio – lunga anche 200 metri – e sparare del vapore, così lo zolfo contenuto nelle pietre veniva fuso ed era più semplice estrarlo». Ma perché in Sicilia questo metodo non è stato applicato?

«Perché da noi la roccia è troppo densa per quella tecnica – dice Migliori – In America, invece, la roccia è più friabile». Il risultato fu che «da quel momento lo zolfo americano è passato in testa, perché i costi di estrazione erano all’incirca la metà di quelli che si avevano in Sicilia». Così iniziò un lento declino. Lento perché se è vero che la stagione delle solfare siciliane si è conclusa ufficialmente nel 1990, è altrettanto vero che negli ultimi decenni della sua vita questo business ha più o meno solo galleggiato. Secondo l’autrice il colpo di grazia al settore l’hanno dato «l’Ente minerario siciliano e la mafia». Dalla ricerca di Migliori «sono uscite fuori due cose. La prima è che dentro le miniere la mafia c’è sempre stata; parliamo della mafia della prima ora, quella di Calogero Vizzini, una mafia che ha sempre gestito le miniere. La seconda è che quando la mafia è diventata quella dei colletti bianchi si è evoluta anche in questo settore. E fa un nome, quello di Graziano Verzotto.

Politico della Democrazia cristiana e figura a dir poco controversa – è stato accostato alla morte dell’imprenditore Enrico Mattei e al sequestro del giornalista Mauro De Mauro – nel 1967 Verzotto fu nominato presidente dell’Ente minerario siciliano, una società economica della Regione che – secondo molti – avrebbe guidato con criteri clientelari per quasi un decennio. Fino a quando, nel 1975, non venne scoperto che l’Ente aveva depositato ingenti fondi in una banca che fu di proprietà dell’ancor più controverso Michele Sindona. A quel punto Verzotto fu costretto a dimettersi da presidente dell’Ente. «Lui ha totalmente distrutto il settore delle miniere», dice Migliori. Secondo l’autrice, Verzotto ha contribuito a realizzare il disegno della mafia – con la quale sarebbe stato colluso – che aveva «la volontà predominante di chiudere le miniere». Cosa nostra «aveva capito che dal settore non ci poteva più guadagnare nulla, ma l’Ente minerario siciliano continuava comunque a ricevere fondi, che – sostiene Migliori – venivano utilizzati come un portafoglio personale di Verzotto e di chi gli girava intorno».

Ma nel libro l’autrice parla anche di una «seconda morte» del settore: quella relativa al fallito restauro. «Grazie a dei fondi dell’Unione europea, tra il 2009 e il 2010 si è tentato un restauro – durato diversi anni – per convertire in siti turistici le miniere di zolfo, che sono anche luoghi di storia e di memoria». Un’operazione «a beneficio di visitatori e di scolaresche – dice Migliori – che in parte è riuscito, come successo nella miniera di Trabia Tallarita. Ma a un certo punto per mancanza di volontà politica, per nolontà – dice la scrittrice – si è fermato tutto. È stata soprattutto responsabilità della politica locale, avallata da quella regionale. Eppure sarebbe potuto essere un modo per far restare in zone che si stanno spopolando molti giovani, che pure avevano mostrato interesse in questo senso, che avevano iniziato a prestare servizio in questi musei e che lì hanno lasciato il cuore». Migliori, però, aggiunge che «negli ultimi mesi si è parlato di un ulteriore tentativo di restaurare: mi auguro che lo facciano davvero, per questi posti sarebbe la salvezza, perché si tratta quasi di paesi-fantasma».

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E poi c’è la parte fotografica di questo libro, che «è importante e arricchisce la narrazione. Avremmo voluto metterne di più – dice l’autrice – ma molte foto inedite le mostreremo alle presentazioni». Infine la prefazione, che è firmata dal giornalista Attilio Bolzoni. «Un caro amico – dice Migliori – un professionista che stimo da sempre e che adoro. Gli ho chiesto di parlarmi di una realtà che conosceva bene: ha accettato, ha letto il libro, gli è piaciuto e sono onoratissima che abbia accettato di curare la prefazione». Quella delle miniere di zolfo in Sicilia è una realtà che in passato ha ispirato anche Verga e Pirandello, ma della quale si continua a parlare ancora oggi. Da una parte i ricordi di chi in quei posti ha lavorato, dall’altra i fallimenti di certa politica, miope nel cogliere le opportunità e pigra nel trovare le soluzioni. Una nota finale: l’Ente minerario siciliano è stato messo in liquidazione nel 1999, ma lo scorso 27 febbraio un punto all’ordine del giorno di una riunione della giunta Schifani diceva «nomina del commissario liquidatore dell’Ems». Dopotutto sono passati solo 26 anni.





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