Il simbolo della Sicilia 2024? Altro che la millenaria Trinacria che dall’antichità greca rappresenta il Dio del sole e della fertilità o la fantaopera del Ponte su uno Stretto assetato più che dalla scarsità delle piogge dall’irrazionalità nella mancata gestione dell’acqua da cui tutto dipende. Il vero simbolo della Sicilia oggi arriva sulle quattro ruote tra piazze e strade, e sono le autobotti di ogni dimensione e i silos d’acciaio o in plastica alimentare della protezione civile dove si fanno le file per riempire bottiglie e recipienti di ogni dimensione. Un incivile e vergognoso ritorno all’antichità nel tempo degli acquaioli che un tempo vendevano acqua in barili di legno trasportati a dorso di asino o sul carretto. L’isola conta oggi, e siamo ormai in pieno inverno, ben due milioni di siciliani con acqua razionata, o da sempre con l’arrivo per poche ore un giorno a settimana, o da qualche mese per i nuovi assetati che scoprono di vivere in una dimensione indegna.
La siccità non passa, le soluzioni immaginate dalla cabina di regia coordinata dal capo della protezione civile Salvo Cocina hanno tempi lunghi, e l’emergenza si sta trasformando anche in guerre locali per l’acqua. Un migliaio di cittadini di cinque comuni in perenne crisi idrica della provincia di Enna – Gagliano, Troina, Cerami, Nicosia e Sperlinga – la cui sorte dipende esclusivamente dall’invaso dell’Ancipa, con in testa i loro sindaci all’inizio dello scorso weekend hanno forzato i cancelli del potabilizzatore e hanno occupato l’impianto che pompa acqua dalla diga di Troina. Hanno chiuso la condotta idrica appena fatta riaprire dalla cabina di regia per portare acqua anche ai rubinetti della confinante provincia di Caltanissetta dall’invaso quasi completamente a secco. Enna e Caltanissetta sono due tra le province da sempre più in emergenza e nessuno vuole rinunciare alla poca acqua disponibile. Siciliacque, la società a maggioranza della Regione che gestisce il servizio di distribuzione, non garantisce il servizio, e i sindaci avevano sfiorato la rissa in un confronto assai teso negli uffici della Regione.
Ma la novità di oggi manda in tilt mezza Palermo. L’acqua è razionata anche per 250 mila palermitani, nella città che fu dell’acqua, prelevata nei tempi antichi da fonti e pozzi dalle “sénie” e dai sistemi cunicolari di qanat, quando altrove morivano di sete. La sapienza idrica mediorientale, greca e romana trovò nella Palermo governata dagli arabi e poi dai Normanni intorno all’anno 1000, uno dei più spettacolari palcoscenici di utilizzo con quantità tali da far fronte ad ogni domanda irrigua e potabile. Era gestita con pratiche antiche e invenzioni del tempo narrate da eruditi e viaggiatori arabi medievali con descrizioni deliziate di fonti, sorgenti, piscine, fontane, peschiere e polle zampillanti che abbondavano dentro e fuori la cerchia delle mura. Da oggi, invece, stop all’erogazione per il 40% dei cittadini senza acqua corrente per sei giorni a settimana. L’Amap, che gestisce il servizio nel capoluogo, ha esteso il razionamento che già costringeva i cittadini dei quartieri periferici, circa 150 mila persone, a riduzioni del 70% del flusso e della risorsa. Nei 4 bacini idrici di Palermo – Scanzano, Poma, Rosamarina e Piana degli Albanesi – oggi sono conservati meno di 18milioni di metri cubi su una capienza totale di 177 milioni, appena il 10,3%.
Più che gli effetti del cambiamento climatico, sono gli effetti di una irresponsabilità diffusa soprattutto politica e in particolare della Regione autonoma disimpegnata sulle soluzioni strutturali. Oggi riprovano ad abbozzare un piano che necessariamente ha tempi molto lunghi, pensano a “dissalatori mobili” per 100 milioni di euro di cui 90 recuperati dal Fondo sviluppo e coesione – ma sta per essere saccheggiato a giorni dal Ponte sullo Stretto – e a un nuovo dissalatore “fisso” a Porto Empedocle con l’ok del commissario nazionale Nicola Dell’Acqua. La prima richiesta avanzata al ministero delle infrastrutture del revamping dei tre impianti di dissalazione incredibilmente rottamati da una decina di anni dalla stessa Regione – a Porto Empedocle, Gela e Trapani con relative opere di collegamento – è andata in fumo per l’impossibilità dello stesso revamping su tecnologie ormai da modernizzare con l’osmosi inversa, e si passerà a tre nuovi impianti con moduli containerizzati da attivare, si spera, nel giugno 2025.
Da mezzo secolo si ripropongono le stesse soluzioni nel corso di ogni crisi idrica, lanciando le stesse promesse al vento di scirocco o di maestrale su reti, potabilizzatori, dighe e dissalatori. Ma nulla cambierà mai se il servizio idrico resterà volutamente deregolamentato nella Regione che non applica la Legge Galli di 28 anni fa, dove l’acqua resta nelle mani di autobottisti e grossisti che la vendono ai comuni e ai comuni mortali come nel Medioevo, e dove quella che entra nelle reti più fatiscenti d’Italia si disperde in gran parte. Nel Palazzo d’Orleans che ospita la Regione farebbero bene a chiedersi per quale motivo i primi tre dissalatori europei vanto dell’Italia degli anni Settanta del Novecento nel mare davanti a Porto Empedocle, Trapani e Gela sono diventati oggi tre monumenti idrici del disonore? A capire quali e quante irresponsabilità e silenzi hanno permesso al governo regionale di pagare a carissimo prezzo l’acquisto del più grande dissalatore di Gela che nel 1974 desalinizzava l’acqua del mare con la tecnologia allora più avanzata portandola sia al polo petrolchimico che ai 300mila abitanti nelle province di Caltanissetta e Gela oggi con i rubinetti a secco, per lasciarlo arrugginire.
Il petrolchimico fu dismesso dall’ENI nel 2014, riconvertito in bioraffineria e nel 2015 la Regione chiuse l’accordo con l’Eni, firmato da Rosario Crocetta che all’allora guidava la giunta di centrosinistra, con un esborso regionale di 105 milioni e 360mila euro a rate annuali da 10,5 milioni di euro dal 2016 al 2025. Da allora, la tesoreria regionale paga l’impianto di dissalazione mai più rimesso in sesto e utilizzato con decreti annuali di liquidazione dell’assessorato dell’Energia alla voce “Oneri per il ripianamento delle situazioni debitorie pregresse relative alla gestione degli impianti ed alla fornitura delle utilities del dissalatore di Gela”. Il beneficiario oggi è SACE Fct controllata dal Ministero dell’Economia, alla quale l’ENI ha ceduto nel 2020 il credito.
La Regione più in ritardo in infrastrutture idriche, con i maggiori rischi di siccità per la penosa condizione del servizio idrico, ha lasciato senza più manutenzioni e modernizzazione i tre dissalatori che almeno garantivano acqua a tanti comuni costieri oggi nel dramma. E l’impianto più grande fu dismesso nel 2006 e abbandonato al suo destino, rottamato come quello di Trapani e il dissalatore di Porto Empedocle inaugurato nel 2005 dall’allora presidente di centrodestra Totò Cuffaro, che ha pompato acqua dissalata per soli 5 anni ed è costato 6 milioni di euro.
Storie incredibili che chiamano in causa la pessima gestione del bene pubblico per eccellenza. Alla politica spetterebbe porre fine prima possibile a finzioni di gestioni affidate al 68% dei comuni siciliani, caso unico in Italia, con assessorati comunali senza risorse né personale tecnico per riparare una semplice falla di un tubo. Però, in nome dell’autonomia siciliana, il consiglio regionale da sempre a larghissima maggioranza boccia quei rari tentativi di ragionevole applicazione della riforma Galli, boicottando in maniera seriale e trasversale ogni disegno di buona gestione delle infrastrutture idriche. Eppure siamo sull’isola dove le precipitazioni superano di quasi venti volte i fabbisogni ma dove mancano reti e impianti per immagazzinare, distribuire, utilizzare con efficienza e risparmio l’acqua, e poi depurarla. E dove le 46 dighe di competenza regionale che potrebbero invasare 708 milioni di metri cubi di acqua da mezzo secolo per oltre metà risultano “fuori esercizio”, a “invaso limitato”, “in attesa di collaudo”, e tutte non sono mai state ripulite da sedimenti.
Ecco perché la Sicilia è lo specchio di un menefreghismo senza freni che oggi ci fa vergognare.
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