Se fosse vivo Dante Alighieri probabilmente si farebbe un giretto per i quartieri più degradati delle nostre città a caccia di un aggiornamento sull’Inferno. Ma i grandi della letteratura viaggiano attraverso le loro opere e Dante, questa volta, una tappa l’ha fatta a Tor Bella Monaca, quartiere famoso della periferia difficile di Roma, per merito di un professore delle medie, giornalista e scrittore: Emiliano Sbaraglia, che per le edizioni e/o ha pubblicato un romanzo lieve sulla sua esperienza di lettore e divulgatore del sommo poeta (Leggere Dante a Tor Bella Monaca, pp. 144, euro 17).
Le pagine di Sbaraglia scorrono veloci come un diario della memoria delle ore passate a scuola a insegnare italiano e a cercare soprattutto un linguaggio, un filo di comunicazione viva con quelle ragazze e quei ragazzi che vivono situazioni sociali pesanti e borderline.
NEL VIRGOLETTATO delle conversazioni a scuola emergono tutti, ma proprio tutti, i drammi di una vita passata tra genitori in carcere, spacciatori sempre dietro l’angolo, violenza, solitudine, prostituzione e qualche tentativo di ribellione. Scorrendo il libro ci si rende conto di essere costantemente di fronte a tre piani di lettura: c’è il racconto delle lezioni su Dante (e delle reazioni comiche dei ragazzi e delle ragazze, «che carini Paolo e Francesca»…, «ma che carini, lei era una zoccola»), ci sono gli approfondimenti dotti, ma semplificati sul percorso culturale del padre della lingua e c’è poi un filo di riflessione sulla scuola (e una pedagogia da rinnovare completamente) unita a un ripensamento sulle scelte personali dal sapore vagamente malinconico che ci raccontano la carriera di un professore/giornalista che ha dovuto sempre correre per meritarsi gli incarichi, rimasti precari per tanti anni.
Un’autocoscienza che conferma e rivendica comunque tutte le scelte fatte, a partire dalla rinuncia alla carriera universitaria a favore della scuola. «Dante è più bello insegnarlo a scuola – scrive Sbaraglia – nella scuola pubblica, periferia o centro fa lo stesso. Lo senti vivo più che mai, come fosse seduto accanto a te. Leggendolo in classe sembra quasi di ascoltare la sua voce che parla agli allievi, rapiti da quei suoni ancora estranei, eppure tanto familiari».
Non è stato facile per il prof convincere i suoi studenti a seguirlo tra quegli inusuali sentieri in rima. D’altra parte il muro da superare non è stato solo quello degli alunni, ma anche delle famiglie, come quella volta che lo zio di un ragazzo si è presentato al colloquio a muso duro con una domanda secca e provocatoria: ma perché gli fate leggere la Divina Commedia quando questi ragazzi non sanno neppure scrivere e tra qualche tempo dovranno sostenere l’esame finale? La risposta allo zio e ai ragazzi non è stata ovvia, ma conquistata verso per verso fino a quando Sbaraglia è riuscito nel miracolo di presentare Dante come uno scrittore di tanti secoli fa, ma che riesce ancora a parlare a noi, perché in fondo, parla di noi. Parla dell’umanità ai suoi limiti estremi, scava nei peccati e nelle attitudini in un contesto mai pacificato, almeno fino al Paradiso. Si capiscono dunque anche le reazioni degli alunni che si sono subito chiesti: «Ma perché ci fa leggere l’Inferno? Perché non passiamo subito al Paradiso?». Perché l’Inferno, per molti di loro può essere la quotidianità come quando la polizia ti ferma all’uscita dagli allenamenti di calcio e senza nessun motivo ti perquisisce e ti fa fare le flessioni sull’asfalto solo perché sei un «torBella».
ESPERIENZA PROFONDA, difficile da dimenticare o da archiviare nel curriculum vitae, La Divina Commedia, secondo gli studenti di una scuola dimenticata. «Ammazza professò… Ma lo sai che è proprio bello? Ma bello bello. Dall’inizio alla fine, come comincia e come finisce. E alla fine me sa che c’avevi ragione tu, professò: ’sto Dante è pure mejo de Totti». Per il prof, rimanendo al linguaggio del calcio, è stata una vittoria. «Ci salutiamo, ci abbracciamo, c’è posto anche per qualche lacrima, ma non si può dire, non si può far vedere. Siamo gente forte, gente dura, abituata a vivere sulla strada. La solita strada». «Professò?». «Dimmi». «Ma noi faremo come Dante?». «Cioè?». «Noi c’annamo in Paradiso?». «Non lo so… Bisogna avere le chiavi… E si deve trovare la strada giusta. Dante direbbe la diritta via».
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