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I sistemi di compliance: “eticizzazione” del diritto e rischi di competitività per le imprese


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di Giovanni Reho – SOMMARIO: 1. I sistemi di compliance tra diritto ed etica. La fine dell’autosufficienza del diritto? La funzione integrativa degli strumenti di cd. “soft law”. –  2. Luci ed ombre del processo di “eticizzazione” dei sistemi di compliance. La “coercizione del principio etico” e il rischio di un’etica strumentale (“ethic washing”). – 3. Disparità competitive e “dumping etico”.   Il rischio di concentrazione del mercato e di riduzione della competitività. – 4.  Assenza di standard globali e il fenomeno del cd. “forum shopping”. Il rischio di “compliance washing”. – 5. Possibili misure di mitigazione delle pratiche scorrette. Proporzionalità normativa e armonizzazione internazionale. – 6. Compliance tra norma etica formale e norma etica sostanziale. La necessità di smascherare il rischio del “dilemma etico”. – 7.  Proporzionalità e giustizia sociale nei sistemi di compliance. – 8. Sistemi di compliance e intelligenza artificiale. Dallo “Stato etico-reputazionale” allo “Stato computazionale”.

  1. I sistemi di compliance tra diritto ed etica. La fine dell’autosufficienza del diritto? La funzione integrativa degli strumenti di cd. “soft law”.

Nell’attuale fase di importanti trasformazioni sociali, si registra una frequente integrazione tra norme giuridiche e principi etici.

È necessario chiedersi se la legge, nei settori in cui si enfatizza la necessità di un comportamento etico da parte delle imprese, abbia il primato dell’autosufficienza oppure vi sia una “invasione di campo” da parte dell’etica, in ambiti nei quali il presidio della norma giuridica era indiscusso e, soprattutto, fondamentale per la certezza dello Stato di diritto.

Invero, l’adozione dei sistemi di compliance si inserisce in una dimensione evolutiva delle dinamiche sociali e giuridiche che riflette la consapevolezza da parte del diritto positivo dei propri limiti, primo tra tutti quello di non essere sempre rigoroso e tempestivo nelle risposte ai molteplici fenomeni complessi che caratterizzano la realtà globalizzata, interconnessa e attraversata da cambiamenti sociali ed economici molto rapidi e radicali.

In un mondo globalizzato e di pluralismo normativo, le imprese operano in contesti giuridici eterogenei mentre le normative nazionali non sono sempre in grado di regolare fenomeni e attività che attraversano confini geografici e giuridici. La rapidità dei cambiamenti tecnologici impone un passo che manca al diritto, il quale fatica a regolare con puntualità le innovazioni tecnologiche e i nuovi modelli di business (dall’economia digitale all’intelligenza artificiale) lasciando inevitabili zone grigie. In molti settori si avverte l’inefficienza della legge a disciplinare compiutamente e tempestivamente problematiche sociali nuove ed impellenti con una conseguente crisi di legittimità delle istituzioni pubbliche.

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In questo scenario, il diritto positivo viene sempre più affiancato da meccanismi volontari e strumenti di cd. “soft law” come ad esempio codici etici, policy aziendali e framework internazionali di compliance.

Si può pensare che compliance e comportamento etico rappresentino un’estensione necessaria del diritto senza possibilitàdi alternative possibili.

La compliance nella sua dimensione legale, regolamentare e etica si presenta come un ponte tra diritto positivo e realtà pratica che consente alle aziende (i) di prevenire rischi reputazionali in un mondo interconnesso con un impatto immediato e diretto sui profitti; (ii) di soddisfare le aspettative di stakeholder diversificati, tra questi consumatori, investitori, dipendenti e organizzazioni internazionali che richiedono standard più elevati di trasparenza e responsabilità sociale; (iii) di adattarsi a regolamentazioni complesse sovranazionali che prevedono codici di condotta settoriali.

Nel descritto scenario, la crescente formalizzazione di principi etici attraverso codici di compliance rappresenta un inevitabile processo di complementarità che, da un lato, conferma l’autonomia dell’etica rispetto al diritto e, dall’altro, include una necessaria reciproca influenza. Molte norme giuridiche nascono infatti da istanze etiche che si consolidano in principi giuridici. In questo senso, dunque, l’etica non può sostituire il diritto favorendo tuttavia l’adozione di comportamenti che anticipano o integrano le disposizioni normative. Come vedremo tuttavia questo sistema complementare ha alcune importanti criticità.

  1. Luci ed ombre del processo di “eticizzazione” dei sistemi di compliance. La “coercizione del principio etico” e il rischio di un’etica strumentale (“ethic washing”).

Il crescente processo di “eticizzazione” nei sistemi di compliance racchiude alcuni fattori negativi:

–              il rischio della cd. “etica strumentale” o del cd. ethics washing, cioè l’adozione di codici etici e strumenti di compliance come mera operazione di facciata, senza un reale impegno nell’applicazione dei valori etici adottati;

–              la possibile perdita di certezza del diritto, con la confusione tra norme obbligatorie e norme volontarie e conseguente ambiguità dei contorni di confine tra obblighi legali e scelte volontarie;

–              il rischio della cd. “coercizione del principio etico” nei confronti di soggetti che hanno propri riferimenti valoriali e principi etici diversi non conciliabili con quelli altrui;

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–              il rischio di disparità competitive, cioè la possibilità che le piccole imprese non siano in grado, a causa di risorse insufficienti, di implementare sistemi di compliance complessi.

Queste criticità sono il portato di una trasformazione che riflette il passaggio da un modello puramente giuridico a uno multidimensionale, dove diritto, etica e responsabilità sociale devono convergere per affrontare le sfide del mondo moderno.

Il tema della disparità competitiva è tra quelli che dovrebbe essere più sensibile al diritto (oltre che alla stessa norma etica in quanto tale) al quale questo studio si propone uno specifico approfondimento.

  1. Disparità competitive e “dumping etico”. Il rischio di concentrazione del mercato e di riduzione della competitività.

La disparità competitiva si può manifestare in modi diversi, soprattutto quando i sistemi di regolamentazione e i costi associati non sono proporzionati alla capacità delle imprese di sostenerli. Questo fenomeno può assumere coloriture di rilievo principalmente nel divario tra grandi aziende e piccole o medie imprese (PMI), ma può emergere anche tra imprese operanti in Paesi con normative differenti o con diverse forme di accesso alle risorse.

Le grandi aziende dispongono di risorse finanziarie e organizzative significative per implementare complessi sistemi di compliance creando strutture interne dedicate (come, ad esempio, uffici di legal compliance); predisporre programmi formativi periodici dei dipendenti; utilizzare tecnologie avanzate per il monitoraggio di conformità etica e normativa.

Le PMI, al contrario, non sempre hanno la capacità economica o gestionale di sostenere i costi di tali strutture, con un correlato squilibrio competitivo.

Ogni singolo processo, dalla valutazione dei rischi alla redazione dei documenti di compliance, dalla formazione dei dipendenti alle successive attività di monitoraggio, comporta costi che in molti casi sono sproporzionati rispetto ai ricavi di bilancio e possono rappresentano una quota molto maggiore del bilancio rispetto a una grande azienda.

Molte PMI devono adottare scelte economiche e finanziarie che spesso escludono la possibilità di sostenere costosi sistemi di compliance dovendo in tal modo subire le cd. barriere all’ingresso: in settori dove la compliance è essenziale per accedere a mercati specifici (es. appalti pubblici, settori regolamentati come farmaceutico o energetico), le PMI rischiano di essere escluse.

Altro fenomeno che può erodere competitività deriva dal rischio per le imprese che non possono investire in compliance di essere percepite meno affidabili dai clienti o dai partner, subendo una ingiusta perdita di reputazione, opportunità e profitti.

Notoriamente, gli Stati membri dell’Unione Europea sono dotati di normative stringenti in tema di compliance e responsabilità etica e affrontano costi e obblighi significativamente superiori rispetto a quelle che operano in contesti con normative meno rigorose.

La possibilità di sistemi e normative geograficamente non uniformi sul tema degli obblighi di compliance può causare una forma molto insidiosa di dumping etico: le aziende che operano in Paesi con standard di compliance inferiori hanno maggiore possibilità di competere sul costo e sul prezzo dei prodotti e dei servizi, avvantaggiandosi di minori costi regolamentari, come quelli relativi alla tutela ambientale, al rispetto dei diritti umani o alla prevenzione della corruzione.

In questo modo le aziende che rispettano standard elevati potrebbero trovarsi in situazione di notevole svantaggio competitivo rispetto a concorrenti meno etici, dovendo rivedere la propria politica interna di adesione volontaria a comportamenti virtuosi, allo scopo di evitare inaccettabili distorsioni del mercato globale. Tenuto conto, peraltro, che il rischio di esclusione da mercati regolamentati per le aziende sfornite di modelli conformi agli standard internazionali è ormai sempre più alto.

Tra le gravi conseguenza delle disparità competitive si possono annoverare il rischio di favorire un progressivo ed inarrestabile fenomeno di concentrazione del mercato nelle mani di imprese molto grandi e sempre più potenti in grado di integrare senza alcuna difficoltà finanziaria qualunque modello operativo di compliance che viene per l’appunto accolto e disciplinato con favore in termini di assoluto vantaggio competitivo-speculativo.

Questo fenomeno può assumere contorni preoccupanti in termini di perdita di concorrenza, con esiziale riduzione o eliminazione della varietà e della diversità dei player economici e incrementando il potere radicato delle grandi imprese.

Una risposta patologica a tale fenomeno può comportare conseguenze altrettanto gravi: le imprese meno strutturate o situate in contesti normativi meno rigorosi potrebbero compensare i costi competitivi con pratiche non sostenibili e tra queste una riduzione dei salari o il peggioramento delle condizioni lavorative; l’esternalizzazione dei costi ambientali (es. scarso rispetto delle norme ecologiche) oppure l’evasione fiscale o il ricorso a economie informali.

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Non può peraltro sottovalutarsi il problema di una sempre crescente frammentazione normativa. Le aziende che operano a livello internazionale devono affrontare un mosaico normativo complesso e non armonizzato.

Solo per fare alcuni esempi i requisiti di compliance nel Regolamento Europeo sulla protezione dei dati personali sono molto diversi dalle normative di altri Paesi, con un aumento dei costi per le imprese che hanno la necessità di conformarsi ai sistemi applicati presso più paesi e diverse giurisdizioni.

  1. Assenza di stardard globali e il fenomeno del cd. “forum shopping”. Il rischio di “compliance washing”.

L’assenza di standard globali uniformi favorisce, come detto, i Paesi con normative meno stringenti, contribuendo al fenomeno del cd. forum shopping, nei quali le imprese scelgono di insediarsi per la presenza di giurisdizioni meno regolamentate, avviando un processo di trasferimento delle proprie iniziative di impresa e di allocazione relative risorse nei mercati meno regolamentati.

Le grandi aziende potrebbero sfruttare la compliance solo come strategia di marketing, formalizzando codici etici e strumenti apparentemente rigorosi, senza un’applicazione effettiva. Il pericolo di compliance washing può quindi erodere la fiducia dei consumatori e generare ulteriore disparità rispetto a quelle aziende (spesso PMI) che adottano pratiche virtuose senza pubblicizzarle.

L’insidia del fenomeno del compliance washing si nasconde nella premeditata asimmetria tra rappresentazione apparente e contesto aziendale reale, con conseguenze non trascurabili sulla leale concorrenza tra operatori economici. Invero, un’organizzazione può dichiarare il rispetto di norme, standard o valori etici senza aver mai implementato realmente le misure necessarie per garantirne la loro corretta e concreta applicazione. Questo comportamento, pur rientrando in uno schema che l’azienda può considerare strategico, mina alla radice i principi di trasparenza, integrità e responsabilità, fondamentali per una interazione leale e trasparente tra imprese, consumatori e società.

La competitività tra imprese, in questo modo, rischia una grave minaccia per la sua tenuta in un sistema che dovrebbe fondare i propri valori giuridici sulla leale concorrenza dei mercati, con inevitabili conseguenze significative per le imprese virtuose. Le organizzazioni che adottano misure effettive di compliance programmano e sostengono costi organizzativi e di gestione molto importanti per implementare politiche e processi di compliance. Queste imprese sono infatti impegnate a considerare la politica interna di conformità come un’area strategica necessariamente strutturata secondo un approccio articolato e completo che prevede obblighi formativi, tecnologia, risorse e spazi ad hoc, audit e consulenze professionali specialistiche. Al contrario, le imprese che adottano una strategia di mera apparenza possono risparmiare tali risorse, ottenendo un vantaggio economico e competitivo sleale che consente loro di primeggiare su un terreno diseguale che può deprimere gli investimenti e provocare una regressiva implosione dei sistemi di standard di settore.

Lo stesso sistema normativo che disciplina le misure di conformità rischia di apparire meno efficace perdendo credibilità e la stessa possibilità di essere percepito non in grado di governare realmente i propri obiettivi con conseguente perdita di consenso generale. Si pensi ad esempio ai delicati ambiti della tutela dei dati personali, dei sistemi anticorruzione e della sostenibilità ambientale. Il rischio percepito può essere quello di una completa infedeltà normativa rispetto alle aspettative di trasparenza e giustizia che erano state alimentate, con seria compromissione di tutti gli sforzi collettivi nel frattempo impiegati dalle imprese sui propri sistemi di compliance.

Al di là della mera questione reputazione, il compliance washing può rappresentare un vero e proprio problema sistemico, che impone l’adozione di normative stringenti, controlli sistematici e monitoraggi efficaci, atteso il rischio che il fallimento dei sistemi di compliance possa seriamente compromettere la fiducia in un modello concorrenziale realmente sostenibile e responsabile.

  1. Possibili misure di mitigazione delle pratiche scorrette sui sistemi di compliance. Proporzionalità normativa e armonizzazione internazionale.

In un’ottica di mitigazione dei rischi per la libera competitività in un mercato giuridicamente leale, sarebbero necessarie alcune fondamentali strategie di implementazione delle attuali normative.

Le norme positive dovrebbero prevedere requisiti di compliance adattati alla dimensione e alle risorse delle imprese, per evitare oneri eccessivi sulle PMI adottando un principio cogente di proporzionalità normativa nei sistemi di compliance.

Sarebbe altresì auspicabile promuovere standard globali uniformi (es. standard ISO o iniziative dell’OCSE) per combattere e ridurre le distorsioni dei mercati internazionali secondo un reale ed efficace principio di armonizzazione internazionale nei sistemi di compliance.

Le PMI, per essere incoraggiate ad implementare i propri sistemi di compliance, dovrebbe ricevere supporto economico e tecnico attraverso finanziamenti pubblici o programmi di formazione secondo un vero e proprio piano di incentivazione e di sostegno.

Altrettanto necessaria è l’adozione strutturata e generalizzata di sistemi sanzionatori efficaci in grado di colpire ogni possibile fenomeno di “compliance washing”, quando l’adozione del modello di conformità è solo apparente.

 Senza una reale strategia di approccio efficace alle distorsioni che possono comportare i sistemi di compliance, il rischio di creare barriere per le PMI o favorire comportamenti opportunistici da parte di grandi aziende diventa non solo reale ma anche drasticamente dannoso. Un approccio equilibrato, basato su incentivi e armonizzazione normativa, è dunque essenziale per garantire che la compliance non diventi un fattore di esclusione, ma al contrario, se possibile, un fattore reale di crescita sostenibile per tutte le imprese, prescindendo dalla loro dimensione.

  1. Compliance tra norma etica formale e norma etica sostanziale. La necessità di smascherare il rischio del “dilemma etico”.

La storia ha conosciuto drammatiche esperienze di etica formale nelle organizzazioni di regimi statuali che hanno demolito la democrazia e lo stato di diritto. L’etica del regime era una etichetta inquietante che stabiliva principi di differenza, esclusione e segregazione per affermare prevaricazioni e violenze ad esempio sociali, religiose o razziali.

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La norma etica formale nella sua declinazione più moderna stabilisce principi etico-reputazionali erga omnes e si impone come modello indiscusso (o da non discutere) sulla base del quale stabilire secondo schemi di sezione netta tra ciò che “giusto” e al contrario “ingiusto”. In questo sistema può essere difficile la sopravvivenza di principi di civiltà come legalità e tipicità della norma giuridica ovvero di presunzione di innocenza o condanna per colpevolezza secondo un nesso eziologico documentato.

Invero, la forza della norma etica formale è quella di stabilire criteri di imputazione delle responsabilità secondo modelli reputazionali che riducono l’esame della sottostante norma giuridica ad un mero passaggio valutativo sommario e formalistico.

Con le ovvie differenze, un sistema di compliance etico-reputazionale, nel quale non hanno spazio i principi dello stato di diritto, propugna criteri premiali o punitivi imperniati sulla diretta ed incondizionata corrispondenza tra la mera valutazione reputazionale della condotta (secondo un giudizio di intrinseca moralità) e la diretta revoca del sistema premiale oppure l’immediato innesco di una sanzione di condanna (a volte esemplare, come nei casi di alcune attuali black list).

Il principio etico sostanziale, viceversa, introduce elementi e contenuti di pensiero, riflessione e valutazione che – subordinatamente allo stato di diritto – entrano a far parte della norma giuridica che continua a preservare il proprio primato sulla norma etica formale.

La confusione tra i due distinti piani dell’etica, formale e sostanziale, rappresenta plasticamente il fenomeno normativo del cd. dilemma etico che uno stato di diritto non può accettare.

Il dilemma etico si maschera nei modelli normativi che propongono la disciplina di principi e valori umani intrinsecamente universali che tuttavia sul piano applicativo approvano, a volte manifestatamente, schemi generalizzanti indistinti per l’intera molteplicità dei casi disciplinati, senza distinzioni di sorta.

In un sistema articolato e stratificato di compliance – che sembra presentarsi come il nuovo protagonista delle organizzazioni normative future (a detrimento e ridimensionamento del diritto classico) – si chiede una necessaria ed ineludibile capacità di includere la necessità preventiva del principio di proporzionalità normativa e di considerare le implicazioni pratiche e l’impatto sui soggetti regolati, promuovendo un’applicazione equa e sostenibile.

L’etica si basa su valori come giustizia, equità e rispetto per la dignità delle persone. Il principio di proporzionalità è coerente con questi valori, poiché richiede che ogni obbligo sia necessario (le norme devono perseguire obiettivi concreti e giustificati); adeguato (gli strumenti adottati devono essere selezionati per la loro efficacia di perseguire lo scopo); proporzionato (i mezzi utilizzati non devono imporre un carico eccessivo rispetto ai benefici ottenuti).

Quando una norma etica ignora queste dimensioni, rischia di diventare un’ingiusta imposizione e manca della legittimità morale che è il suo fondamento. Ad esempio, una norma che richiede investimenti di compliance identici per un piccolo artigiano e per una multinazionale difficilmente può essere considerata etica, poiché ignora le disparità strutturali tra i due soggetti.

I rischi di una norma etica priva del requisito di proporzionalità si sperimenta (i) sul piano della inefficienza normativa: le aziende meno strutturate non riescono a rispettare gli obblighi, vanificando l’effetto complessivo della norma; (ii) su quello delle disuguaglianze sistemiche: le imprese più grandi e meglio posizionate sfruttano le norme come strumento competitivo, aggravando le disparità già esistenti. Consegue quindi una perdita di legittimità morale perché la norma non ha più carattere etico sostanziale, trasformandosi in un’imposizione percepita come arbitraria o strumentale.

Un esempio pratico è dato dai sistemi di compliance in materia ambientale. Se tali norme non considerano le diverse capacità delle imprese, le PMI potrebbero trovarsi impossibilitate a rispettarle, con la conseguenza di chiudere l’attività o cercare di eluderle.

  1. 7. Proporzionalità e giustizia sociale nei sistemi di compliance.

L’inserimento del principio di proporzionalità in una norma etica ha anche una dimensione di giustizia sociale. Le PMI rappresentano il tessuto economico principale in molti Paesi. Norme proporzionali permettono loro di partecipare attivamente al raggiungimento degli obiettivi etici, senza essere escluse o svantaggiate.

Un sistema normativo proporzionato non scoraggia le aziende meno strutturate, ma anzi le incentiva ad adottare progressivamente comportamenti virtuosi mentre le norme etiche proporzionate garantiscono una distribuzione più equilibrata dei costi e dei benefici delle politiche, evitando che solo alcune categorie di soggetti ne sostengano il peso.

Per garantire che una norma etica rispetti il principio di proporzionalità, è necessario prevedere strumenti che tengano conto delle specificità dei destinatari secondo criteri differenziati in base alla dimensione e alla capacità economica (ad esempio, un sistema di compliance che richieda alle PMI standard minimi e progressivi, mentre impone obblighi più rigorosi alle grandi imprese).

È altresì necessaria la previsione di incentivi per l’adozione graduale dei sistemi di compliance (come ad esempio, sgravi fiscali, finanziamenti o supporto tecnico per le imprese che decidono di adeguarsi volontariamente).

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E’ fondamentale, peraltro, la possibilità di una “valutazione di impatto” ex ante. Ogni norma etica dovrebbe essere accompagnata da uno studio sull’impatto economico e sociale, per evitare che generi oneri sproporzionati. Un esempio positivo è rappresentato dalla normativa europea sul sustainability reporting (Direttiva CSRD), che prevede obblighi di rendicontazione ambientale e sociale più stringenti per le grandi imprese, lasciando margini più ampi alle PMI.

Quando l’integrazione tra norma giuridica e il principio etico si svolge secondo un processo sintonico, permeato dal primato dello stato di diritto si ottengono effetti positivi significativi, che coincidono (i) con una maggiore adesione al sistema di conformità in quanto le imprese percepiscono le norme come giuste e sostenibili; (ii) con una rafforzamento della fiducia che consente agli stakeholder e alla società civile di riconoscere l’equità del sistema normativo, accettandolo come legittimo; (iii) con la crescita economica inclusiva, perché le norme etiche diventano uno strumento per promuovere la sostenibilità senza sacrificare la competitività delle piccole imprese.

Un sistema normativo etico che non consideri il principio di proporzionalità rischia di tradire i suoi presupposti morali. L’etica, per essere tale, deve essere equa, sostenibile e inclusiva, e il principio di proporzionalità è lo strumento fondamentale per realizzare questi obiettivi. Solo integrando questa dimensione nelle norme si può garantire che il loro impatto sia realmente giusto e non si trasformino in strumenti di esclusione o discriminazione economica.

  1. Sistemi di compliance e intelligenza artificiale. Dallo “Stato etico-reputazionale” allo “Stato computazionale”.

In una prospettiva futura, come sembrano indicare i numerosi e crescenti sistemi di compliance, non è del tutto peregrino considerare una possibile associazione evolutiva dei sistemi di compliance (che sostituiscono o integrano in modo significativo il diritto classico) con l’emergente e inarrestabile affermazione dell’intelligenza artificiale.

Ebbene, se il diritto classico – il diritto vivente nella stratificazione storica dell’esperienza umana e giuridica – rappresenta un corpo normativo difficilmente sussumibile all’interno del funzionamento algoritmico dell’intelligenza artificiale, non altrettanto problematica potrebbe invece risultare l’incorporazione di sistemi normativi semplificati etico-reputazionali. Questi ultimi infatti hanno una loro organizzazione intrinsecamente essenziale (quasi manichea, “giusto” o “ingiusto”) che si inserisce senza difficoltà in uno schema computazionale proprio dell’intelligenza artificiale.

Un sistema normativo di tipo etico-reputazionale potrebbe risultare più semplice da gestire con l’intelligenza artificiale rispetto al diritto classico per una serie di ragioni legate alla natura flessibile, dinamica e basata sui dati di tale sistema.

La struttura di un sistema etico-reputazionale si compone essenzialmente di dati e metriche e i suoi referenti fondamentali sono costituiti da indicatori di comportamento, indici di valutazione reputazionale e da dati oggettivi sensibili ed osservabili quali ad esempio feedback, rating, performance ambientali o sociali, che nel loro insieme consentono di formare metriche standardizzate e accessibili in tempo reale.

Questo sistema è congeniale per l’intelligenza artificiale che si adatta in modo pressoché istantaneo nell’attività di gestione di grandi quantità di dati strutturati e non strutturati che derivano da fonti specifiche quali report aziendali, social media, feedback dei consumatori, audit digitalizzati, ecc.

Compliance e AI possono dunque integrarsi armonicamente mediante l’analisi di modelli di comportamento attraverso algoritmi di apprendimento automatico ovvero grazie alla valutazione di conformità o di devianza rispetto agli standard etico-reputazionali secondo criteri chiari e basati su punteggi.

Nel diritto classico questa integrazione è più problematica in quanto una valutazione di conformità deve inevitabilmente passare attraverso l’interpretazione corretta, articolata e complessa di una moltitudine di norme giuridiche ciascuna delle quali è ispirata da una propria ratio secondo il sistema normativo di riferimento e nell’ambito di una pluralità di normative con le quali il diritto si integra e si compone in una pluralità infinita di principi, valori e significati. Il sistema del diritto classico è in altri termini molto difficile da decifrare e automatizzare da parte dell’AI anche in considerazione di norme giuridiche la cui interpretazione può essere soggetta a valutazioni oscillanti a seconda della discrezionalità personale, il mutevole contesto di riferimento e la possibile necessità di bilanciamento di interessi in conflitto.

L’integrazione con il diritto classico richiede pertanto una profonda comprensione del linguaggio giuridico e del contesto socioculturale, elementi che per loro natura ed essenza sono difficili da gestire in modo completamente automatizzato.

Viceversa, come si accennava, un sistema etico-reputazionale è facilmente standardizzabile e quindi processabile mediante modelli di AI perché si basa su principi generali (es. trasparenza, responsabilità sociale, correttezza) e su risultati misurabili (es. performance nei diritti dei lavoratori, soddisfazione dei consumatori).

Come noto, peraltro l’AI può raggiungere risultati eccellenti nella automazione di processi ripetitivi e nelle analisi predittive e in questo senso un sistema etico-reputazionale, in quando alimentato da dinamiche soggette a procedure di continua valutazione, offre un terreno fertilissimo per il processamento da parte dell’AI.

Altro elemento in favore dell’integrazione tra sistemi di compliance e AI è dato dalla possibilità di monitoraggio continuo da parte dell’AI che può essere in grado di esercitare una sorveglianza costante sui comportamenti aziendali o individuali, identificando rapidamente possibili devianze o potenziali fattori negativi da valutare.

Un sistema etico-reputazionale si concentra sui risultati effettivi e non solo sulla conformità formale. L’AI potrà dunque verificare questi risultati analizzando dati oggettivi e osservabili (es. report ambientali, certificazioni verificate).

Nel diritto classico, invece, il focus riguarda le formalità procedurali e gli adempimenti normativi, che non sempre possono essere integralmente rispettati (ad esempio, fenomeni come il compliance washing).

Le caratteristiche proprie del diritto classico rendono il lavoro dell’AI più complesso sia nella fase di interpretazione che di manipolazione dei dati con conseguente difficoltà nel processo di automazione.

Se l’integrazione tra sistemi di compliance e AI è caratterizzata da un processamento tendenzialmente snello ed elastico, in uno scenario futuro possibile, pur apparendo oggi apparentemente avveniristico, è pensabile che la virata verso sistemi etico-reputazionali sia funzionalmente preferibile per una organizzazione, pianificazione, direzione e gestione della comunità globale secondo regole standardizzate sussumibili all’interno di codici etici che corrispondono alle esigenze di un sistema metrico-computazione e quindi essenzialmente algoritmico.

Può trattarsi di uno sviluppo possibile per quanto per certi versi allarmante. Se ancora spingessimo oltre la visione delle cose, potremmo pensare ad una ipotesi di futura organizzazione statuale e globale su base computazionale (cd. “Stato Computazionale”: si tratta di un concetto definitorio nuovo, elaborato nell’ambito del presente studio).

Un sistema computazionale elabora informazioni attraverso algoritmi, regole e dati, con l’obiettivo di raggiungere risultati specifici e si basa su tre fondamentali componenti: (1) Input: i dati o le informazioni in ingresso che vengono elaborati; (2) Elaborazione: la fase in cui i dati vengono processati tramite modelli matematici, algoritmi o programmi; (3) Output: i risultati finali, che possono essere decisioni, azioni o nuove informazioni utili.

I sistemi computazionali possono spaziare da semplici calcoli matematici a complessi modelli di intelligenza artificiale, come i sistemi predittivi o di automazione decisionale.

Uno “Stato Computazionale” può essere definito come un sistema statuale, amministrativo e giudiziario nel quale l’intervento umano è diventato marginale oppure assente, in quanto fondato su sistemi computazionali come l’intelligenza artificiale, il machine learning e la gestione automatizzata dei dati. Questa forma di Stato, sul presupposto di assumere decisioni fondate su dati oggettivi, si distingue per l’integrazione di tecnologie avanzate in ogni aspetto della gestione statale, con la promessa di aumentare l’efficienza amministrativa, garantire trasparenza e uniformità di trattamento e minimizzare gli errori giudiziari.

I sistemi tecnologici assumono quindi un ruolo centrale nel funzionamento delle istituzioni, gestendo in maniera algoritmica i processi legislativi, esecutivi e giudiziari.

Lo Stato Computazionale potrebbe mantenere e fare proprio il principio della separazione dei poteri con innovazioni aberranti per il destino della specie umana.

La struttura decisionale potrebbe essere basata su algoritmi e quindi diventare una vera e propria legislazione algoritmica: il processo di formazione delle leggi passa attraverso fasi di proposta, analisi e ottimizzazione grazie all’impiego di modelli computazionali che scansionano e analizzano l’impatto della eventuale normativa su diversi settori. Quale potrebbe essere la verifica dei risultati di una nuova imposta in un determinato settore di riferimento. Sulla base dei risultati la legge sarà promulgata secondo una valutazione preventiva di gradimento.

La gestione amministrativa dello Stato Computazionale è affidata a decisioni esecutive completamente automatizzate. Le politiche pubbliche potrebbero essere implementate da sistemi computazionali che allocano risorse in base a priorità stabilite da dati reali (es. crisi ambientali o emergenze sanitarie).

Si insedierebbe inoltre una vera e propria giustizia computazionale: le dispute legali potrebbero essere risolte parzialmente da sistemi di intelligenza artificiale che analizzano i casi in base a precedenti giurisprudenziali e normative, emettendo verdetti preliminari.

Aspetto cruciale per la esistenza di uno Stato Computazionale è la raccolta e analisi massiva di dati in tempo reale, per monitorare bisogni e tendenze della popolazione (dati demografici e sociali); per anticipare crisi economiche, sanitarie o ambientali (sistemi predittivi) e per la personalizzazione delle politiche giudiziarie, per cui ogni cittadino potrebbe essere considerato individualmente nel sistema decisionale, ricevendo servizi o risposte calibrate alle proprie esigenze.

Un simile Stato ha ovviamente una capacità algoritmica tentacolare procurandosi di gestire in modo automatizzato i sistemi burocratici, i sistemi di welfare e i servizi sociali secondo una valutazione aggiornata e continua a misura di ogni singolo cittadino in base al reddito, salute, educazione, etc. Gli stessi sistemi fiscali potrebbero essere automatizzati per adattare le imposte alle condizioni economiche del singolo contribuente o del sistema economico complessivo.

Per quanto tutto questo è possibile, è altrettanto auspicabile che non avvenga per evitare di crollare nell’abisso dell’umanità. Uno stato computazionale potrebbe assicurare la competitività tra le imprese e garantire la soluzione di ogni criticità del mercato, ma con quali regole e soprattutto con le regole di chi? E con quali costi umani?

Il rischio potenziale o anche solo parziale di una simile prospettiva deve imporre un dibattito profondo sulle implicazioni etiche, sociali e giuridiche che possono scaturire per il futuro del genere umano ed evitare che il calcolo sostituisca la giustizia e il potere si concentri in poche mani.

Giovanni Reho

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