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Non sarà il patriottismo finanziario a tutelare il risparmio degli italiani


Per Giorgia Meloni, l’Ops di Mps su Mediobanca «potrà avere un ruolo importante per la messa in sicurezza dei risparmi degli italiani». E azionisti italiani in controllo di Generali farebbero la guardia alla “cassaforte” dell’assicurazione dove sono custoditi i nostri titoli di stato, nonché bloccherebbero la joint venture con la francese Natixis che potrebbe “espropriare” gli italiani dei loro risparmi.

È lo stesso concetto usato per minacciare il golden power ogni volta che uno straniero (ma anche italiano come Unicredit, se così decide il governo) mette nel mirino una nostra società, specie se gestisce il risparmio che per il governo è al sicuro se investito prevalentemente nel nostro debito pubblico e in aziende italiane. Sono affermazioni prive di fondamento. Non è un giudizio politico visto che argomentazioni simili sono state fatte in passato dalla sinistra.

Né è una prerogativa italiana perché il governo tedesco vuole bloccare Unicredit in quanto Commerzbank ridurrebbe il credito alle imprese del paese; e in passato si è sempre opposto all’Unione Bancaria argomentando che i depositanti tedeschi finanzierebbero il rischioso debito pubblico italiano (e ora, immagino, quello francese).

Al sicuro? 

Non è vero che il risparmio degli italiani sia maggiormente al sicuro se investito in Italia, anzi potrebbe succedere il contrario. Ipotizziamo che un italiano avesse tutti i suoi risparmi investiti in Btp e versasse i contributi all’Inps per la sua pensione. Un’eventuale crisi del debito pubblico aumenterebbe lo spread e quindi i rendimenti dei Btp facendo cadere il loro valore di mercato (i prezzi si muovono inversamente ai rendimenti), riducendo così la sua ricchezza finanziaria.

Ma il governo, per fronteggiare la crisi, sarebbe costretto ad aumentare le imposte e tagliare la spesa, riducendo in questo modo il suo reddito disponibile; ma probabilmente anche il valore atteso della pensione (con un aumento dell’età pensionabile, dei contributi o una riduzione dell’indicizzazione all’inflazione). L’investimento nel debito pubblico italiano aumenterebbe quindi il suo rischio complessivo poiché sarebbe correlato col reddito da lavoro e la ricchezza pensionistica.

Un metalmeccanico andrebbe incontro agli stessi rischi nel caso di una crisi aziendale se il suo fondo pensione integrativo avesse una forte esposizione in titoli di case automobilistiche, della componentistica o impiantistica; o un imprenditore del settore meccanico se il suo private banker facesse gli stessi investimenti. La ricchezza finanziaria serve anche a diversificare il rischio del reddito da lavoro e del risparmio previdenziale.

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Finanziamenti e contributi

Oggi chiunque, direttamente o tramite una delle tantissime forme di risparmio gestito, può investire in qualsiasi attività nel mondo rapidamente e a un costo risibile, avendo quindi a disposizione tantissime opportunità rispetto a quelle offerte dal nostro paese.

Se si vuole investire in titoli di società che producono i beni che utilizziamo quotidianamente, dallo smartphone alla risonanza magnetica, dal detersivo ai software del PC, dalla tavoletta di cioccolata all’aeroplano con cui andiamo in vacanza, dalla carta di credito al pannello solare, quasi sicuramente saranno grandi gruppi quotati stranieri. Siamo un paese di industrie ma sono le società straniere a dominare nei segmenti a più alta crescita, come automazione, elettrificazione e sistemi che li gestiscono.

Abbiamo eccellenze come Leonardo, Moncler, Campari, Pirelli, Buzzi, Interpump e tante altre, ma per ognuna ci sono tante valide alternative di investimento in giro per il mondo. Lo stesso vale per le obbligazioni corporate. E i Btp, che oggi godono del favore del mercato, anche se più per demeriti della Francia, pagano comunque il premio per il rischio (spread) più alto in Europa, Grecia compresa.

Diversificare 

L’esigenza di diversificare il rischio, specie quello rappresentato dalla finanza pubblica, e di ricercare le più ampie opportunità di investimento nel mondo, spiega perché gli italiani abbiano investito 920 miliardi in attività estere negli ultimi dieci anni, a fronte dei 110 degli stranieri in Italia, prevalentemente in Btp data la scarsità di valide opportunità da noi.

I flussi variano nel tempo: nel triennio 2020-22 gli stranieri hanno venduto debito italiano per 85 miliardi per poi comprarne 74 nel 2023; mentre gli italiani hanno investito 155 miliardi in azioni estere, per poi venderne 31. Ma il trend verso la diversificazione internazionale del risparmio italiano è inevitabile, oltre che razionale, perché riflette le migliori possibilità di diversificare la ricchezza del mondo, la carenza di opportunità di investimento da noi, e il rischio eccessivo causato dalla dimensione del nostro debito pubblico.

Un trend alimentato anche dal nostro asfittico mercato dei capitali perché il peso delle attività italiane negli indici a cui fanno riferimento le gestioni nel mondo si riduce nel tempo: appena il 5 e lo 0,7 per cento quello delle azioni rispettivamente nell’indice europeo e mondiale; e 5,5 quello delle obbligazioni corporate in euro.

Un trend che non dipende dalla nazionalità degli azionisti delle società che gestiscono il risparmio perché qualunque gestore deve far fronte agli stessi rischi e scegliere tra stesse opportunità di investimento a prescindere dalla società per cui lavora, nell’interesse dei risparmiatori. Se, per esempio, aveste una polizza vita di Generali, e un domani ci fosse il rischio di una crisi del debito pubblico italiano, preferireste che la vostra polizza fosse investita interamente in Btp, o diversificata in titoli esteri?

Patriottismo rischioso

Il patriottismo in campo finanziario è dunque un rischio per i risparmi, ma anche fuori luogo e inutile. Fuori luogo, perché la migliore garanzia che il governo italiano può offrire ai risparmiatori è sostenibilità del debito pubblico; e piuttosto che chiedere di donare “l’oro alla patria” sottoscrivendo Bpt, dovrebbe piuttosto assicurare che tutti paghino le imposte.

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Ma anche inutile perché banche, assicurazioni e società del risparmio italiane tutte assieme detengono 710 miliardi di titoli di stato, contro i 760 degli investitori stranieri: se questi ultimi disertassero il nostro debito, è impensabile sperare che le nostre istituzioni finanziarie possano sostituirsi agli stranieri, se anche il governo glielo chiedesse in quanto controllate da azionisti italiani “amici”, perché se lo facessero vedrebbero crollare il valore delle loro partecipazioni.

Si ripete che il risparmio italiano non investe nelle aziende medie che il mondo ci invidia e nelle tante nuove iniziative imprenditoriali. Vero, ma perché private equity e venture capital italiano sono ancora poco sviluppati.

Gli italiani preferiscono infatti di gran lunga il mattone (51 per cento della ricchezza); la liquidità dei depositi e i titoli di stato (13 per cento); i fondi comuni, che però investono solo un terzo in azioni, e quotate; e polizze, fondi pensione e casse previdenziali (9 per cento): ma le assicurazioni sono penalizzate se investono in capitale di rischio, e la previdenza privata, dove però è il risparmiatore che sostiene il rischio finanziario per via della contribuzione definita, è solo una minima frazione della ricchezza pensionistica italiana, pubblica e basata sul sistema a ripartizione (pensioni pagate dai contributi e imposte di chi lavora).

Non ci sono quindi gli investitori di lungo periodo in capitale di rischio adeguati alla dimensione della nostra economia. Lo stesso governo deve chiedere aiuto ai vari fondi Kkr, Blackstone, Macquarie, Asterion, per gli investimenti nelle proprie partecipate.

Le famiglie imprenditoriali italiane detengono poi 1.500 miliardi in azioni delle proprie società, che però non quotano per non perdere il controllo, e vendono, spesso a un private equity straniero, quando c’è un passaggio generazionale o vogliono far cassa. Ma senza investitori di lungo periodo, e aziende in cui investire, non si può certo creare un grande mercato dei capitali che faccia crescere le nostre imprese. Per questo sarebbe indispensabile un mercato unico europeo: proprio quello che il nostro governo non vuole.

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