Nel documentario Terra a perdere le testimonianze del disequilibrio ambientale e sociale creato dalle roccaforti delle forze armate. Un’analisi di tre giornalisti indipendenti sugli effetti delle basi militari in Sardegna, che dà voce a chi ne subisce le conseguenze e non trova eco
Da alcuni mesi, su canali alternativi, gira il documentario Terra a perdere che racconta le testimonianze del popolo sardo sulle servitù militari presenti ormai da decenni nel loro territorio.
Un documentario che punta a fare controinformazione e risvegliare le coscienze su un tema delicatissimo e contraddittorio. Una regione, la Sardegna, molto conosciuta per il mare, i paesaggi mozzafiato, la storia millenaria.
Meno conosciuta, invece, è la presenza di poligoni militari, che avvelenano la terra e la vita dell’isola fin dagli anni ’50, perché creati come tributo di guerra.
Terra da perdere, documentario su un aspetto ignorato della Sardegna
Terra a perdere è un documentario costruito a più voci, che analizza l’importanza e gli effetti delle basi militari in Sardegna, portando le testimonianze di chi ne subisce le conseguenze e non trova un’eco adeguata a livello istituzionale.
È stato realizzato nel corso di due anni di lavoro, tra il 2022 e il 2023, dai giornalisti d’inchiesta Chiara Pracchi, Simona Tarzia e Fabio Palli per offrire una nuova prospettiva su una realtà trascurata, mettendo in luce la fatica, ma anche la vitalità culturale di chi immagina per la propria terra un futuro diverso.
Tema delicato, quello delle servitù militari, che non abbiamo la pretesa di esaurire qui, ma che possiamo definire universalmente noto, sia dai documenti ufficiali delle forze armate sia dalla stampa regionale (La Nuova Sardegna e Unione Sarda per citare i due maggiori quotidiani) anche se ne parla poco a livello nazionale.
È noto, infatti, che in quelle zone avvengono le esercitazioni di tutte le forze armate occidentali che preparano guerre; anche dai documenti esaminati dai giornalisti che hanno realizzato il documentario sono emersi dati relativi al fatto che sono presenti in quelle aree particelle radioattive che inquinano.
Aree che funzionano da discariche per il munizionamento obsoleto e da laboratorio per la sperimentazione di nuovi armamenti.
Una realtà troppo poco conosciuta, il cui impatto sulla salute delle centinaia di persone che vivono nei pressi delle basi sono ancora tutte da verificare, non esistendo, purtroppo, una vera e propria indagine epidemiologica sistematica che fornisca un nesso diretto specifico.
Per fare due esempi concreti di realtà significative, il poligono militare di Teulada (Sud Sardegna), istituito nel 1956 dalla Nato, è il secondo più grande d’Italia e d’Europa e occupa una superficie di circa 7.200 ettari, mentre il poligono sperimentale di addestramento interforze di Salto di Quirra è un poligono delle forze armate italiane costituito nel 1956 che sorge nel comune di Perdasdefogu, in provincia di Nuoro, che oggi opera sia nel settore della sperimentazione a terra ed in volo di sistemi d’arma complessi, che in quello dell’addestramento all’impiego di ogni tipologia di armamento per l’uso aereo, navale e terrestre.
Ricorda Chiara Pracchi, a proposito del Poligono di Quirra che è stato lo spunto da cui partire per il documentario, “per anni si è parlato di animali nati malformati e di tassi anomali di tumori fra la popolazione limitrofa e da anni gli abitanti del luogo e comitati locali chiedono costantemente la chiusura della base, la bonifica delle aree inquinate e la restituzione delle aree alla comunità. C’è stata un’indagine, sono state istituite varie commissioni parlamentari, ma poi il nulla“.
La decisione di realizzare il documentario è stata presa alla conclusione, fra la stanchezza generale, del processo che ha assolto gli ex-comandanti del poligono di Quirra con la motivazione che “non vi è idonea prova (circa la sussistenza del fatto )”, a novembre 2021, pur non mancando le evidenze del disastro ambientale operato sul suolo del poligono, riportate anche nei 13 faldoni che hanno composto i sette anni di indagini.
E le motivazioni rese pubbliche non hanno comunque fatto chiarezza. Va sottolineato che l’imputazione per disastro ambientale era stata cassata dal Gip e formalizzata in un processo per omissioni di cautele.
Un ulteriore esempio che possiamo citare riguarda la base di Teulada, è il prospetto che il 1° Reggimento corazzato ha fornito agli inquirenti (fonte Pressenza, 17/6/2023), secondo il quale sulla penisola Delta, zona di arrivo dei colpi, dal 2008 al primo semestre del 2016, sono piovuti 860mila colpi, equivalenti a circa 556 tonnellate di residui bellici, più di 11.000 missili Milan, con il loro carico di torio radioattivo.
Come riportato sempre su Pressenza, la prima ordinanza per l’impiego dei Milan è del 2003 ed è vincolante “per la sicurezza del personale e la salvaguardia ambientale” e prevederebbe, tra le altre misure, la bonifica delle aree e i rilevamenti di contaminazione del terreno.
In realtà su quelle superfici sono presenti tonnellate di residuati contenenti quantità di inquinanti in grado di contaminare non solo il suolo, ma anche acqua, aria, vegetazione e animali.
Nonostante il passare degli anni (e le nuove comunicazioni date sui pericoli derivanti dalle particelle di torio) nella penisola Delta le bonifiche non avvengono e la stessa area è dichiarata zona interdetta.
La penisola Delta non è l’unica zona dove sono stati abbandonati i residuati delle esercitazioni. Infatti come emerso nel corso delle diverse indagini sono state ritrovate anche due discariche abusive in località Is Pulixi, della grandezza di circa due ettari, e nell’area dunale di Porto Tramatzu, delle quali non è possibile risalire ai responsabili.
Forse per la pressione esercitata sui comandanti del poligono o, come riporta un documento della Corte dei Conti, per la mutata sensibilità ambientale all’interno delle Forze Armate, più recentemente l’amministrazione della Difesa ha presentato una Valutazione di Incidenza Ambientale per un progetto di bonifica della Penisola Delta, fino a quel momento dichiarata imbonificabile.
Spiega Chiara Pracchi, “ciò che ha un impatto davvero significativo sulla vita di tutti i giorni dei cittadini è che neppure le amministrazioni locali possono avere voce in capitolo sui calendari delle esercitazioni, per quanto esista un Comitato misto paritetico (Comipa) che, pur ricevendo il calendario, non può opporsi e può essere scavalcato dall’amministrazione Delle Forze Armate. Inoltre, per il materiale impiegato dal 2006 è obbligatorio un registro, che però non è accessibile in maniera trasparente e quindi non esiste una reale possibilità di controllo da parte di strutture esterne al mondo militare“.
Un’assurdità, in particolare se si considera che il poligono di Teulada ingloba due siti di interesse comunitario, quello di Isola Rossa e gli Stagni di Porto Pino, per i quali l’Unione europea ha già avviato una procedura d’infrazione.
Un tema di grande attualità, ma di ancora scarsa o ridotta visibilità, quello delle basi militari in Sardegna perché molto contraddittorio.
Infatti, i comuni maggiormente gravati dalle servitù militari, quelli “nei quali le esigenze militari (compresi particolari tipi di insediamenti) incidono maggiormente sull’uso del territorio e sui programmi di sviluppo economico e sociale“, come si legge in una delibera regionale del 2023 di ripartizione delle risorse messe a disposizione, ricevono indennizzi che ammontano a cifre piuttosto ragguardevoli e di particolare significato economico per gli stessi bilanci.
E questo a fronte di una constatazione innegabile, cioè che non esistono servitù militari che si possano definire sostenibili.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link