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La politica culturale nel 2024: cosa cambia e perché tenerne conto


© Foto di Mike Von su Unsplash

 

 

Il mondo, quest’anno, non ha potuto ritrovare la sua “normalità” né uscire dalla fase critica che ci siamo trovati ad affrontare negli ultimi anni. La violenza politica è aumentata del 15% rispetto al 2023. Ad oggi, sono stati registrati 56 conflitti dal carattere sempre più internazionale.  Il numero di persone costrette a lasciare le proprie case nel mondo ha raggiunto i 120 milioni, un altro massimo storico. Al contempo, le elezioni in Europa, negli Stati Uniti e in altre parti del mondo hanno evidenziato uno spostamento verso la destra politica, che si sta declinando in un’attenzione sempre crescente nei confronti delle politiche interne e in una riduzione progressiva dello spazio destinato ai nuovi arrivati.

Nel frattempo, la rapida ascesa dell’IA generativa, una delle tendenze dominanti del 2023 e del 2024, sta continuando a rimodellare la nostra economia e le nostre dinamiche sociali. Si tratta di un fenomeno tecnologico capace di avere un impatto profondo sui settori culturali e creativi. Nonostante il tentativo di rafforzare il controllo attraverso le azioni di regolamentazione, la realtà dei fatti sembra indicare come sia la politica sia l’opinione pubblica fatichino a tenere il passo con lo sviluppo esplosivo dell’IA.

Una nota tutto sommato positiva è rappresentata dal fatto che, nel corso della

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Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP29) tenutasi in Azerbaigian, i leader mondiali sono giunti a un accordo rivoluzionario, che triplica i finanziamenti per l’azione climatica destinati ai Paesi in via di sviluppo. Purtroppo però, questi progressi fungono anche da monito, e ci ricordano come gli sforzi profusi finora a livello globale si siano rivelati inadeguati ad arginare gli impatti climatici di cui soffre il mondo in ogni suo angolo. La realtà dei fatti è rimasta la stessa: a conferma della tendenza osservata negli ultimi anni, il 2024 si avvia a diventare l’anno più caldo mai registrato.

Che tipo di anno è stato il 2024 per la cultura? Cosa possiamo aspettarci dal 2025? Se ci concentriamo sull’Europa e su determinate prospettive globali, possiamo osservare quanto segue.

LA CULTURA NELLO SVILUPPO SOSTENIBILE: DELIBERATAMENTE ESCLUSA

Sul piano del riconoscimento politico della cultura nelle agende di alto livello, il 2024 è stato un anno di speranze tradite, se non addirittura di vere e proprie battute d’arresto. In particolare, la cultura in quanto tale è stata ancora una volta tagliata fuori dai rinnovati impegni globali per lo sviluppo sostenibile.

Nell’autunno del 2024, i leader mondiali si sono riuniti in occasione del Vertice del Futuro, con l’obiettivo di raggiungere un nuovo consenso internazionale volto a garantire un futuro migliore per il pianeta. Il principale esito del Vertice è stato l’adozione del Patto per il Futuro, in cui sono state affrontate le principali sfide globali e sono state delineate strategie per la loro risoluzione a livello globale. La bozza iniziale del Patto includeva una sezione dedicata alla cultura, ponendola come obiettivo indipendente di sviluppo sostenibile; tuttavia, questa sezione è stata esclusa della versione finale.

La cultura, pur essendo ancora riconosciuta, è stata declassata: non ha più un paragrafo dedicato ed è stata invece accorpata allo sport. Sebbene il Patto riconosca l’importanza di integrare la cultura nelle politiche economiche, sociali e ambientali, non fa alcun riferimento diretto alle politiche culturali in quanto tali. In sintesi, la cultura è stata in qualche modo inclusa in queste agende, ma solo come strumento di supporto ad altre politiche. Tutto ciò non è in linea con le aspirazioni della campagna che da tempo si batte affinché la cultura sia riconosciuta come un obiettivo a sé stante.

Inoltre, i leader del G20 riuniti a Rio De Janeiro a novembre non hanno più proclamato alcun obiettivo specifico per la cultura. “Non più”, dato che nel 2023 i capi di Stato del G20 avevano coraggiosamente chiesto di includere un obiettivo specifico per la cultura nell’agenda per lo sviluppo sostenibile; si trattava del primo appello ad alto livello di questo genere proveniente dai ministeri della cultura. Eppure questa volta la Dichiarazione del G20 si è limitata ad abbracciare un discorso più generale, sottolineando che la cultura ha un potere significativo nel “promuovere un mondo più sostenibile, in tutte le dimensioni e da tutti i punti di vista”.

E tutto ciò nonostante il “club” del G7 avesse chiesto di promuovere la cultura come obiettivo a sé stante solo due mesi prima, in occasione della Riunione ministeriale del G7 sulla cultura. In occasione del meeting dei BRICS di settembre, anche l’India ha insistito su questo obiettivo, il quale però, nella Dichiarazione finale, è stato ridimensionato in un “riconoscimento del potere della cultura come catalizzatore per lo sviluppo sostenibile”.

Infine, la COP29 ha rappresentato una notevole delusione per i sostenitori della cultura in tutto il mondo, in particolare alla luce degli storici progressi compiuti nel contesto della COP28 di Dubai, negli Emirati Arabi Uniti. L’anno scorso, dopo il lancio dell’Appello globale per mettere la cultura al centro dell’azione per il clima, è stato istituito il “Group of Friends of Culture-Based Climate Action”. Tuttavia, nelle conclusioni della COP29, la proposta che gli organi sussidiari dell’UNFCCC organizzino workshop sulle questioni relative alla cultura e al patrimonio culturale nel 2025 è stata respinta. Una simile proposta avrebbe potuto gettare le basi per un’agenda culturale più forte nel contesto della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.

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Il riconoscimento della cultura come componente indipendente ed essenziale dello sviluppo sostenibile è molto più di una vittoria simbolica: si tratta della chiave per apprezzare il contributo unico che la cultura può apportare alla realizzazione di un futuro migliore, invece di trattarla come un semplice elemento di politiche più ampie. In questo modo, si potrebbero rafforzare le politiche culturali e, soprattutto, rendere più rilevante ed efficace la stessa Agenda della sostenibilità.

Come mai stiamo assistendo a questo scenario da “un passo avanti e due indietro”? Benché si possano ipotizzare ragioni complesse, una cosa è chiara: la cultura non è stata semplicemente trascurata, ma è stata deliberatamente esclusa da queste agende più ampie. Forse perché la cultura è vista come eccessivamente politica o non abbastanza politica? Si tratta di una mancanza di evidenze? Tutto questo è forse dovuto all’incapacità dei diversi Paesi di raggiungere un accordo?

Alcuni spunti di riflessione in merito sono stati recentemente offerti dall’UNESCO, che ha condotto un sondaggio per valutare lo stato delle priorità e delle disposizioni delineate nella Dichiarazione MONDIACULT 2022 adottata in Messico.

Attraverso il sondaggio, i governi hanno identificato diversi ostacoli chiave all’inserimento della cultura tra gli obiettivi di sviluppo sostenibile. Vediamo quindi alcuni di questi “perché”:

  • La grande eterogeneità delle priorità, delle esigenze e degli approcci nazionali e regionali, che richiede un ampio coordinamento al fine di orientare i cambiamenti politici.
  • L’insostenibilità del settore culturale stesso, caratterizzato da vulnerabilità finanziaria (un circolo apparentemente vizioso).
  • La realtà attuale delle policrisi, in cui gli investimenti vengono dirottati verso altre priorità economiche e sociali (un altro circolo vizioso?).
  • Lacune nelle politiche e nei quadri normativi nazionali e subnazionali.
  • Dinamiche politiche tali da ostacolare gli sforzi volti a promuovere la cultura indipendentemente dalle agende politiche.

Queste problematiche sembrano essere consolidate da tempo e profondamente radicate nel panorama politico globale. Se vogliamo fare un passo avanti in questo ambito nel 2025, è necessaria una svolta coraggiosa nella volontà politica collettiva. Esistono segnali di un possibile cambiamento in tal senso?

IL RESET POLITICO DELL’EUROPA: PIÙ STRATEGIA, MENO CULTURA

Attualmente disponiamo di un quadro delle nuove priorità della Commissione europea, delineate all’interno delle linee guida politiche di Ursula von der Leyen prima della sua rielezione a Presidente della Commissione nel mese di luglio. Questa nuova visione pone l’accento su una maggiore autonomia, sovranità e competitività dell’Unione, “in un’epoca di ansia e incertezza”, in cui dobbiamo “avere una visione chiara del mondo e delle minacce che ci circondano, per come esse sono realmente”. La cultura non è menzionata nelle linee guida politiche del Presidente, ad eccezione di un breve riferimento al patrimonio culturale come componente del “nostro stile di vita europeo”.

La competitività è emersa come tema centrale per l’UE negli anni a venire, come evidenziato nel Rapporto sul futuro della competitività europea, di recente pubblicazione, commissionato dall’UE e redatto da Mario Draghi, ex primo ministro italiano ed ex presidente della Banca Centrale Europea. Draghi auspica investimenti significativi nell’innovazione, nella difesa e nella transizione dell’economia dell’Unione verso la neutralità delle emissioni di carbonio. Sebbene il rapporto sia stato oggetto di alcune critiche, è verosimile che esso sia destinato a plasmare la visione dell’UE in merito al miglioramento della competitività economica globale – un obiettivo che rimane indiscutibile. Questo documento di 400 pagine non menziona nemmeno una volta le industrie creative, né tanto meno la cultura o il “settore culturale”. Come la cultura possa inserirsi in questa più ampia agenda della competitività, se mai lo farà, rimane da chiarire.

L’ambizione di rafforzare la competitività dell’Europa viene portata avanti all’interno di un contesto di cambiamenti geopolitici che hanno costretto l’UE ad adottare un approccio più strategico e coordinato. Uno dei principali elementi di questo sforzo è la riorganizzazione della Direzione generale per la politica europea di vicinato e i negoziati di allargamento (DG NEAR). Il suo portfolio, precedentemente ampio, è stato diviso tra il Commissario per il Mediterraneo e il Commissario per l’allargamento. Questa modifica rispecchia le caratteristiche distinte di queste aree e si propone di consentire un approccio politico più mirato nei confronti di ciascuna di esse.

La lettera programmatica di Ursula von der Leyen al Commissario per i Partenariati internazionali evidenzia un’ulteriore specializzazione dell’UE nelle proprie relazioni internazionali, con particolare riguardo all’Africa, all’Asia e all’America Latina. Nell’ottica di un potenziamento della cosiddetta “Global Gateway” incentrato sul commercio e sugli investimenti, sarà difficile per la cultura rivestire un ruolo di primo piano nelle agende di questi nuovi dipartimenti dell’UE. Basti pensare che nelle lettere di missione di ognuno dei tre Commissari la cultura non è menzionata in alcun modo.

Benché un approccio personalizzato alle relazioni estere possa apparire logico, una specializzazione regionale dell’azione culturale non collima organicamente con la natura “dal basso verso l’alto” delle relazioni culturali transnazionali, le quali prosperano a prescindere dai confini imposti dalle priorità specifiche dei governi a livello nazionale o regionale. Pertanto, questo nuovo sviluppo ci pone di fronte ad una domanda: sarà presa in considerazione una dimensione culturale più inclusiva e senza confini?

Dal momento che i concetti di “competitività”, “autonomia” e “sovranità” dell’UE sono prevalentemente formulati in termini economici e militari, in modo da riflettere le realtà globali, è sorprendente che la cultura non sia riconosciuta come una risorsa chiave per rafforzare il posizionamento globale dell’UE. Riusciranno i diplomatici e i responsabili della cooperazione dell’UE a convincere Bruxelles a mettere in campo fondi per partenariati più incentrati sulle persone e più inclusivi? In un momento in cui la fiducia transnazionale si sta erodendo sempre più, come può l’UE pensare di continuare a promuovere i suoi principi e i suoi valori senza fare leva su collaborazioni incentrate sulla cultura e sulle relazioni tra persone?

L’EUROPA POST-ELETTORALE: UN CAMPO DIVISO E POLARIZZATO

Se da un lato la nuova direzione politica dell’UE deve ancora stabilire un approccio chiaro nei confronti della cultura, dall’altro la divisione politica all’interno del rinnovato panorama europeo rende ancora più incerto il futuro della politica culturale dell’UE.

Le elezioni di giugno hanno dato vita al Parlamento europeo maggiormente orientato a destra dalla sua istituzione. Più della metà dei suoi membri appartiene al Partito Popolare Europeo di centrodestra, ma hanno acquisito una certa influenza anche gruppi di destra come i Conservatori e Riformisti Europei e nuove fazioni come i Patrioti per l’Europa (fondati dall’ungherese Viktor Orban) e l’Europa delle Nazioni Sovrane (guidata dall’estrema destra AfD). Il Parlamento del 2024-2029 non è soltanto orientato più a destra rispetto al precedente, ma è anche più polarizzato, come dimostrano i risultati del voto per il nuovo Collegio dei Commissari a novembre: 370 favorevoli, 282 contrari e 36 astenuti.

Ovviamente, anche gli approcci alla cultura in un’area così politicamente divisa variano notevolmente. La neonata Commissione Cultura e Istruzione del Parlamento europeo conta 30 membri effettivi provenienti da tutti gli otto gruppi politici europei, e la sua composizione è decisamente più orientata a destra rispetto alla Commissione CULT del 2019-2024. La presidente della commissione, Nela Riehl, appartiene al gruppo dei Verdi/EFA, che tradizionalmente assume la posizione più progressista sulle politiche culturali. Tuttavia, questa posizione non si è ancora pienamente riflessa nel discorso e nelle iniziative del gruppo e della presidente.

La commissione CULT si trova di fronte a sfide che riguardano l’equilibrio tra le identità culturali nazionali e l’integrazione europea, nonché la gestione del divario tra valori progressisti e conservatori. Un tema comune ai partiti di destra e centro-destra, che costituiscono la maggioranza del Comitato, è l’enfasi sull’unicità delle culture nazionali. Questi partiti spesso basano la loro visione politica sull’orgoglio della propria civiltà, utilizzando la cultura per promuovere gli interessi nazionali all’estero o per rafforzare l’identità nazionale in patria. Se da un lato alcuni di questi partiti non vedono l’integrazione europea come una minaccia, altri esprimono preoccupazioni sull’interazione tra le identità nazionali e l’idea di un’Europa unificata, e su quanto in là debba spingersi l’integrazione culturale.

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L’enfasi sulle identità nazionali nei manifesti dei partiti di destra si contrappone alle visioni degli altri partiti rappresentati nella commissione CULT, che auspicano uno spazio culturale più integrato in Europa. Ad esempio, i socialisti francesi mirano a trasformare l’Europa in una “potenza culturale” e a raddoppiare il bilancio di Europa Creativa, mentre i democratici italiani chiedono che la cultura diventi uno strumento chiave della politica estera comune dell’UE, e che sia sostenuta da risorse e strategie adeguate.

Nei prossimi cinque anni si cercherà di capire che tipo di politica e di investimenti culturali europei possano emergere in un’Unione sempre più di destra e politicamente divisa. Quali visioni politiche contrastanti prevarranno? Quali compromessi saranno raggiunti? Nonostante sia troppo presto per fare ipotesi, alcuni sviluppi iniziali lasciano intravedere una prospettiva interessante. Il Parlamento europeo ha istituito 28 nuovi intergruppi, ovvero forum che riuniscono gruppi politici diversi per affrontare questioni urgenti. Tra questi, un solo intergruppo è legato alla cultura, con un titolo esplicito: “Patrimonio culturale europeo, Cammino di Santiago e radici culturali europee”.

LO STATUS DEGLI ARTISTI SI RIAFFERMA COME PRIORITARIO, IN UN CONTESTO DI CONTRAZIONE DI RISORSE E LIBERTÀ

La precarietà delle condizioni di lavoro nei settori culturali e creativi è stata messa a nudo durante la pandemia da COVID-19. Successivamente, sono stati realizzati numerosi studi sulla situazione lavorativa degli artisti, e sono state introdotte diverse modifiche legislative in tutto il mondo allo scopo di migliorare le condizioni di lavoro nel settore.

Alcuni di questi cambiamenti si sono verificati anche a livello europeo. Una delle iniziative più significative in questo ambito è stata una risoluzione adottata dal Parlamento europeo nel novembre dello scorso anno, la quale propone un quadro europeo per il miglioramento delle condizioni di lavoro nel settore culturale, incentrato su tre azioni chiave:

  • Una direttiva UE per stabilire condizioni di lavoro dignitose per i professionisti e garantire la determinazione del loro status occupazionale.
  • La creazione di una piattaforma europea per promuovere lo scambio di best practice e la comprensione reciproca tra gli Stati Membri.
  • Un adeguamento dei programmi dell’UE che sostengono gli artisti, come Europa Creativa, volto a garantire la conformità con gli obblighi sociali e lavorativi europei, nazionali e collettivi.

Alla luce degli sviluppi post-elettorali, è lecito aspettarsi passi avanti concreti in questo campo da parte dell’Unione europea? Molti indizi suggeriscono di sì.

Anche se la risoluzione del Parlamento è stata votata nel 2023, quest’anno si è rivelato fondamentale grazie a un’altra pietra miliare: la risposta formale della Commissione europea all’iniziativa del Parlamento. Nella sua risposta, la Commissione si è impegnata a organizzare una tavola rotonda di alto livello con gli stakeholder del settore nel 2024, al fine di individuare il modo migliore per affrontare le esigenze del settore. La Commissione si è inoltre impegnata a esaminare le modalità con cui i futuri programmi (2028-2035) potranno ottemperare alla condizionalità sociale, riconoscendo che i programmi attuali sono disciplinati dalla legislazione vigente. Infine, la Commissione ha assicurato che la questione rimarrà una priorità a livello europeo, e sarà integrata nel nuovo quadro di riferimento strategico per la cultura attualmente in via di sviluppo. Tra tutti questi impegni, quest’ultimo è stato particolarmente significativo, dato che è stato assunto poco prima delle elezioni europee e del rinnovo di Commissione e Parlamento.

Inoltre, le condizioni di lavoro nel settore culturale sono delineate come una priorità chiave nella lettera di missione indirizzata da Ursula von der Leyen a Glenn Micallef, allora commissario designato, e attualmente confermato commissario per l’equità intergenerazionale, i giovani, la cultura e lo sport.  Lo stesso Micallef ha espresso l’aspirazione a compiere progressi in questo settore durante la sua audizione di conferma in Parlamento; tuttavia, i suoi riferimenti alle condizioni di lavoro degli artisti sono stati spesso abbinati alla nozione piuttosto vaga di “competitività” del settore culturale.

È importante notare come il nuovo Parlamento non sembri opporsi o ignorare né questo tema, né le condizioni di lavoro degli artisti. L’argomento compare nei manifesti di diversi partiti nazionali appartenenti all’intero spettro politico, dove la maggior parte delle iniziative sono proposte dai partiti del gruppo dei Socialisti e Democratici, ma anche da altri partiti, compresi quelli di destra. Tuttavia, solo un’esigua minoranza di partiti sostiene esplicitamente un approccio consolidato dell’UE su questo tema, che rispecchierebbe l’idea di un quadro di riferimento europeo per le condizioni di lavoro degli artisti.

E per quanto riguarda gli Stati Membri? Negli ultimi mesi, in molti di essi sono stati effettuati tagli significativi ai finanziamenti pubblici per la cultura, ad esempio in Francia, Italia, Germania, Svezia, Finlandia e altri. Allo stesso tempo, sono aumentati gli attacchi nei confronti della libertà artistica in diversi Paesi europei, compresi quelli tradizionalmente considerati forti interpreti dei diritti umani e delle libertà. Questa tendenza preoccupante desta preoccupazione e mette in luce un paradosso: la crescente consapevolezza della condizione precaria degli artisti si accompagna a una crescente scarsità di risorse per sostenerli e all’erosione della libertà artistica.

È comunque evidente che la questione delle condizioni di lavoro degli artisti non scomparirà dalle agende politiche nazionali. Uno dei segnali più recenti, non vincolante ma storico, è l’appello dei capi di Stato del G20 (non dei ministeri della cultura!) a promuovere una retribuzione equa nel settore culturale, contenuto nella Dichiarazione di Rio adottata a novembre. A questo punto, il nodo è far sì che gli impegni assunti in sede di dichiarazione si traducano in cambiamenti reali. Come possiamo agire in tal senso?

ASPETTI DA MONITORARE NEL FUTURO IMMEDIATO

La ricerca di una nuova narrativa sulla cultura: ”to be continued

Nel panorama globale delle politiche culturali convivono diverse narrazioni, vecchie e nuove, sul valore della cultura. Se da un lato il mondo sta scoprendo i limiti dell’approccio delle industrie creative, che inquadra la cultura esclusivamente come motore economico, dall’altro lato, nel periodo successivo alla pandemia COVID-19, l’interesse per la cultura come fondamento del benessere sta guadagnando sempre più slancio. Tuttavia, non esiste ancora una direzione coerente. Nel frammentato panorama odierno, diverse organizzazioni internazionali stanno adottando approcci che denotano l’esistenza di priorità differenti. Ad esempio, l’Organizzazione Mondiale della Sanità sta conducendo studi su cultura e salute, mentre il Consiglio dell’UE sostiene la necessità di “prescrizioni culturali” da parte degli operatori sanitari. Nel frattempo, i leader dell’ONU omettono di menzionare la cultura nel Patto per il Futuro, nel quale viene invece elogiato lo sport, che è stato accorpato alla cultura in un unico paragrafo. Allo stesso modo, l’OCSE ha escluso la cultura dal suo quadro di riferimento per il benessere “oltre il PIL”. Parallelamente, le nuove strategie nazionali di paesi come Svezia, Nuova Zelanda ed altri, prevedono ancora che la cultura si sviluppi principalmente come industria o che contribuisca al branding nazionale, come nel caso della nuova Cool Japan Strategy e del decreto attuativo dell’agenda “Made in Italy”. Si potrebbe obiettare che la diversità di approcci non è in sé dannosa, dato che, dopotutto, il mondo è pur sempre vario; tuttavia, l’adozione di una visione globale più consolidata sulla cultura contribuirebbe a far progredire in modo più stabile la politica culturale che tutti noi auspichiamo.

Il tempo a disposizione per definire la cultura come bene pubblico globale sta per scadere

L’anno prossimo, i ministeri della cultura di tutto il mondo si riuniranno in Spagna in occasione della conferenza MONDIACULT 2025. Sarà il momento di fare il punto sui progressi compiuti dalla Dichiarazione MONDIACULT dell’UNESCO approvata in Messico nel 2022. Uno degli appelli formulati nella Dichiarazione è stato quello di definire “la cultura come bene pubblico globale”. Il concetto di bene pubblico globale è stato introdotto per la prima volta dal Segretario generale delle Nazioni Unite nel 2021, in concomitanza con l’annuncio del “Vertice del futuro” di quest’anno. Il Vertice mira a rivitalizzare il ruolo dell’ONU come organismo di governance globale di fronte ai conflitti, ai cambiamenti climatici, alle crisi democratiche e allo stallo dei progressi in materia di sviluppo. Proprio come l’ambiente, le tecnologie, il sistema finanziario e la pace, la cultura può e deve essere definita come un bene pubblico globale. Eppure, come sostiene Justin O’Connor nel documento di riflessione da noi pubblicato all’inizio di questo autunno, l’invito delle Nazioni Unite a definire la cultura come bene pubblico globale non è stato ancora raccolto, il che “riflette una notevole mancanza di immaginazione politica culturale”.

Una nuova strategia di politica culturale dell’UE prende forma

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La politica culturale dell’UE è attualmente guidata dalla Nuova Agenda per la Cultura 2018, approvata prima che si verificassero cambiamenti globali fondamentali che hanno impattato in modo significativo sulle politiche culturali, tra cui la pandemia COVID-19, l’invasione Russa dell’Ucraina e lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. L’adozione di un nuovo quadro strategico per la cultura fa parte del Piano di lavoro dell’UE per la cultura 2023-2026. Tale piano afferma che il nuovo quadro di riferimento “mirerà a integrare strategicamente la prospettiva politica culturale e i beni culturali in tutte le politiche, i programmi e le iniziative pertinenti dell’UE”. Denominato Culture Compass (Bussola della cultura), questo quadro strategico è delineato nella lettera di missione del Presidente della Commissione Europea al Sig. Micallef. Il nuovo Commissario ha sottolineato che l’obiettivo principale della strategia è il rafforzamento del settore culturale stesso, con un focus secondario sulla promozione della cultura in altre aree politiche. Questa distinzione è importante, poiché queste due priorità sono state spesso trattate in modo confuso nell’ambito della politica culturale dell’UE. Eppure, per il momento non vi è ancora chiarezza sulle caratteristiche della futura strategia.

Il bilancio futuro dell’UE: che tipo di quota spetterà alla cultura?

Le discussioni e i negoziati sul futuro quadro finanziario pluriennale (2028-2035) inizieranno nel corso dei prossimi due anni. Non è ancora chiaro se verrà istituito un programma autonomo per la cultura dopo la scadenza dell’attuale programma Creative Europe. La lettera di missione di Ursula von der Leyen non ne fa menzione, sebbene le sue linee guida politiche propongano una revisione del bilancio dell’UE: meno strumenti, più impatto; un bilancio al servizio delle politiche piuttosto che dei programmi; meno ostacoli amministrativi e decisioni più rapide. Tutto ciò non fornisce una base sufficiente per formulare ipotesi sul futuro di Creative Europe, se non quella di suggerire che l’attuale struttura dell’MFF potrebbe essere riconsiderata. Durante l’udienza, Micallef, che come noi tutti non può fare affidamento su di una visione completa del futuro, ha parlato della necessità di rafforzare il bilancio di Creative Europe e ha sottolineato che saranno prese decisioni più strategiche in materia di finanziamento.

L’era della Resilience and Recovery Facility volge al termine

I prossimi due anni segneranno anche il periodo finale della Resilience and Recovery Facility (RRF), che ha promosso importanti cambiamenti per i settori culturale e creativo a livello nazionale, i quali spaziano da riforme delle condizioni di lavoro a transizioni digitali e ecologiche. Tuttavia, dobbiamo chiederci: queste riforme hanno innescato un vero e proprio cambiamento di paradigma nelle politiche culturali nazionali, sostenibile anche dopo il 2026? È evidente che, perché ciò sia possibile, occorrono un’azione di advocacy continua, molto capacity-building e dei budget sostenibili. Qualora si renda necessario uno strumento europeo post-RRF, è poi fondamentale che i settori culturali e creativi partecipino attivamente alla sua progettazione.

Sono questi i nodi che noi, in quanto rappresentanti del settore culturale, dovremmo innanzitutto monitorare nel corso dei prossimi anni, ma anche influenzare e guidare attivamente nella giusta direzione. Data la tendenza dei governi a marginalizzare e trascurare la cultura all’interno delle più importanti agende politiche, sta a noi rimanere vigili e proattivi nel contrastare questa tendenza, che non giova né alla cultura né ai cittadini, né tantomeno alle stesse agende di ampio respiro.

ABSTRACT

This contribution, written and published by the think tank Culture Policy Room last December and translated from English for Letture Lente, highlights the main trends that have shaped cultural policies at both global and European levels in 2024. Looking ahead to 2025, it distills a series of key themes to monitor in order to better understand and act towards the formulation of policies that acknowledge the value of culture beyond its instrumental role in achieving objectives that, while important, remain within the domain of other policy areas.

 

Culture Policy Room is a think tank dedicated to advancing the practice of cultural policy-making by bridging the gap between research and policy. With a focus on Europe and with a global perspective, we offer insights and knowledge to policy-makers, advocates, and practitioners.

 

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