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così i padrini volevano ricostruire la cupola


La procura di Palermo ha arrestato quasi 200 persone. I boss, alcuni dal carcere, hanno tentato di rifondare la cupola. L’indagine coordinata dalla pm attaccata da destra per il caso Salvini-Open Arms

A Palermo e in tutta la Sicilia i carabinieri hanno arrestato quasi 200 persone, ritenute dalla procura capi e sodali della mafia che si riorganizza e rialza la testa. Mentre i militari inseguivano i ricercati, a Roma i politici si sperticavano in elogi e complimenti: la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha parlato di operazione straordinaria, «la lotta alla mafia non si ferma e non si fermerà».

I giornali filogovernativi, di proprietà del senatore leghista, Antonio Angelucci, hanno titolato: «Palermo, maxi-blitz contro la mafia: 183 misure cautelari, colpaccio di Meloni e Viminale».

Solo che le indagini non le fanno Meloni e Viminale, ma la magistratura. Il maxi blitz è stato coordinato dalla procuratrice aggiunta, Marzia Sabella, che nei mesi scorsi è stata subissata da pesanti insulti social e feroci critiche politiche perché era pubblica accusa nel processo contro Matteo Salvini, poi assolto. Il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro Delle Vedove, aveva parlato di una requisitoria da centro sociale.

Un altro fine giurista, Maurizio Gasparri, senatore forzista, in parlamento da 33 anni, parlava addirittura di atto eversivo, definendo la condotta della procura palermitana «inaudita».

I telefoni ovunque

I carabinieri, coordinati da Sabella e dal procuratore capo, Maurizio De Lucia, hanno scoperto che Cosa nostra non cambia, mantiene inalterati riti e identità, ma come ha sempre fatto nella sua storia si aggiorna, usa telefoni anche criptati, in grado di garantire latitanze comode e l’organizzazione di veri e propri summit a distanza.

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I reati contestati: estorsioni, il famigerato pizzo, e poi il traffico di droga e l’associazione mafiosa compiuti nel tentativo di riorganizzare la struttura colpita dalle ripetute retate delle forze dell’ordine. Dalle carte emerge anche altro. Due anni fa, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, per promuovere la limitazione dell’uso delle intercettazioni rassicurava: «I mafiosi non parlano al telefono».

Poi l’indagine su Matteo Messina Denaro, il latitante imprendibile per 30 anni che si dilettava al telefono, è arrivato a smentirlo. Anche il blitz eseguito dai carabinieri racconta esattamente il contrario, come emerge dalle ordinanze cautelari che hanno portato in carcere 130 persone, una trentina erano già recluse. I boss non solo parlano al telefono, ma controllano anche il carcere.

Comandano dal carcere

Dagli atti emerge che lo stato ha perso il controllo degli istituti di pena, diventati luogo di morte e incivile detenzione per i poveracci, e paradiso per boss e sodali, lì nelle patrie galere fanno tutto quanto di loro gradimento soprattutto nell’alta sicurezza, un regime colabrodo.

Nei reparti entrano minuscoli apparecchi telefonici e migliaia di sim card che consentono di neutralizzare i controlli e ai boss di gestire militanza mafiosa e controllo territoriale. In carcere ci si affilia, è successo a Giuseppe Aliotta che si è battezzato mafioso, ha fatto il «giuramento quello pesante, pesante, pesante in carcere al cospetto di un uomo d’onore». L’uomo era Giuseppe La Mattina, condannato in via definitiva e appartenente alla famiglia di Santa Maria di Gesù. Ma non è l’unico episodio che racconta la bella vita dei boss in carcere.

C’è il padrino Francesco Pedalino che dalla cella è riuscito a organizzare un incontro fra un rappresentante del territorio di Brancaccio, quartiere palermitano, e un altro associato mafioso, per discutere di una deroga alle estorsioni per l’attività commerciale esercitata fuori dal territorio di appartenenza. E poi anche un pestaggio ordinato e seguito in diretta dai boss in videoconferenza dal carcere.

«Come gli zingari»

È la mafia di sempre, in grado di unire silenzio, affari e il necessario aggiornamento tecnologico e operativo. Ma non è più l’età dell’oro criminale, la mafia siciliana (differenze delle altre) mostra crepe nel reclutamento di nuovi affiliati. «Noi pensiamo che facciamo il business, oggi sono altri. Eravamo prima noi, oggi lo fanno altri, … noi siamo gli zingari», diceva il capomafia di Brancaccio, Giancarlo Romano, che si lamenta: «Il livello è basso oggi arrestano a uno e si fa pentito; arrestano un altro…livello misero, basso, ma di che cosa stiamo parlando? Io spero sempre nel futuro, in tutta Palermo, da noi, spero nel futuro di chi sarà il più giovane», aggiunge.

Le parole di Romano, ucciso in un agguato nel 2024, raccontano l’esigenza di tornare ai fasti criminali di un tempo e ricucire i rapporti con la politica e l’economia che conta. Il vero impulso alla riorganizzazione della rete criminale è arrivata dal narcotraffico che svela incroci tra “cosa nostra” con esponenti di vertice di alcuni clan della ‘ndrangheta.

Soldi che servono a garantire il mantenimento delle famiglie dei detenuti, lo spaccio di droga consente anche un capillare controllo del territorio grazie alla rete di spacciatori distribuiti negli angoli della città. L’altro canale che garantisce introiti è quello del gioco illegale con il connubio di sempre tra imprenditoria e malavita.

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