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Chi sono i “content creator” del calcio in Italia


Il New York Times li ha definiti “info-encer”: influencer dell’informazione. Altre volte, ci si riferisce a loro semplicemente chiamandoli creator. Il loro intento comune, però, non è avere necessariamente un’etichetta. Sono solo loro, spesso un nome e un cognome, qualche volta un nome d’arte. Ridefinendo, rimodulando, arricchendo anche la narrazione calcistica e sportiva, un trend che anche in Italia è diventato sempre più consistente e raffinato. Michele Danese (27 anni di Bologna, 127mila follower su Instagram, 78.500 su TikTok) ha iniziato come streamer, mentre portava avanti gli studi di Economia, e poi ha virato su un corso per diventare Direttore Sportivo. Oggi, se scrolli i reel di Instagram e ti piace il calcio, è tra i suggerimenti più frequenti del tuo algoritmo social.

Un po’ creator, un po’ giornalisti: vengono definiti influencer dell’informazione, e sono quei profili che sui social si accostano ai media con nuovi linguaggi o diventano essi stessi media. Anche quando si tratta di calcio: abbiamo parlato con un po’ di loro, per addentrarci in quello che fanno, in come lo fanno. Nei suoi video parla di calcio, lo fa con un linguaggio tecnico – le analisi tattiche sono il suo core – ma comunque accessibile, accattivante, “giovane”. E non si sente a’atto un giornalista. «Io non sono un giornalista, non ho mai scritto pezzi, non mi ci sono mai approcciato. Non perché non mi piaccia, ma non è il mio. Il mio punto d’arrivo, il mio sogno, è diventare un Direttore Sportivo», racconta. La principale di’erenza tra loro e i giornalisti è innanzitutto nella premessa delle rispettive professioni: se il giornalista in senso tradizionale si occupa di scovare le notizie, il creator è colui che le raccoglie, le contestualizza, le restituisce in#ne con il suo stile e il suo mood. E arriva in fretta a centinaia di migliaia di persone, molto prima del giornalista più autorevole e affermato. «In sei mesi sono riuscito a realizzare qualcosa per cui un giornalista impiegherebbe forse dieci anni», spiega Danese.

Eppure, l’ascesa bruciante dei creator nel panorama social e mediatico negli ultimi anni ha innescato un meccanismo che vuole questi ultimi sempre più presenti sui media tradizionali. Sul finire del 2023, per esempio, il gruppo britannico Reach, editore di Daily Mirror e Daily Express tra gli altri, ha licenziato oltre 400 giornalisti e figure simili e ha assunto numerosi influencer al loro posto. Ma non bisogna per forza andare tanto lontano. Mentre Michele Danese ha avviato a dicembre 2024 un podcast originale per Dazn, dal nome “Step on Football”, insieme ai talent ed ex calciatori Valon Behrami e Marco Parolo, già da tempo Lisa Offside è sbarcata negli studi di Sky Sport e Nicolas Cariglia (27 anni di Bari, 185mila follower su Instagram, 177mila su TikTok), già volto di Gazzetta dello Sport, ha iniziato a collaborare con Prime Video. Cariglia, rispetto al collega e amico Danese, ha un background puramente giornalistico: «Ho iniziato come giornalista a Bari. Ho fatto di tutto: tv, radio, telecronache. Ho quella formazione e voglio mantenere quell’approccio di professionalità, di analisi e di informazione tipica del giornalismo, perché è da lì che provengo».

Ma Cariglia non si è fermato alla formazione editoriale: «Ho studiato per diventare anche Match Analyst e Data Analyst. Su questo ho costruito la mia credibilità». Ha dei trascorsi simili Samuele Mandarò (25 anni di Prato, 158mila follower su Instagram, 230mila su TikTok), che ha iniziato con radio e tv locali e il cui trampolino è stata una collaborazione proprio con Cariglia, partendo da un podcast sul Fantacalcio nel 2020 fino ad avviare una startup insieme (FantaGOAT). Oggi Mandarò lavora per Gazzetta dello Sport, non come collaboratore, ma, eccezionalmente, come dipendente. «Io mi sento un creator di informazione. Non sono un giornalista, ma lavoro per Gazzetta e sono un match analyst», racconta. «Gazzetta mi ha visto sui social, si sono accorti che potevo fare delle cose importanti per loro. La prima è stata il podcast sul Fantacalcio, dal nome Only Fanta, uno dei format Youtube di punta della Gazza. La seconda sono i contenuti sui social. In questo non mi hanno condizionato, mi hanno dato totalmente carta bianca».

«Si andrà sempre di più verso la tendenza in cui noi prendiamo il posto dei giornalisti», sottolinea Danese. «Perché è ciò che aziende e broadcaster cercano e pagano: visibilità e numeri. Se io so fare il conduttore, magari so fare soltanto quello. Se invece so fare contenuti, se so intrattenere, se sono duttile, ho un ventaglio più ampio e sono un profilo più appetibile». Ma cosa c’è alla base di questa tendenza? Perché aziende e broadcaster tradizionali reclutano i creator nelle proprie redazioni? Il motivo è da individuare nelle abitudini delle persone, le cui principali fonti di informazione sono ormai i social media. Lo racconta bene uno studio dello scorso settembre del Pew Research Center, un centro di studi statunitense, che ha indagato nelle vite degli americani e ha scoperto che poco più della metà degli adulti americani (il 54%) afferma di informarsi attraverso i social media.

Questo vale a maggior ragione per la fascia anagrafica più giovane (18-24), nonché il pubblico principale dei creator, che predilige Instagram e Youtube a un sito o un’app di informazione per attingere notizie e approfondimenti di attualità. È un modo di informarsi passivo, forse ancora più dello zapping in tv, ma è al contempo il risultato delle nostre scelte quando esprimiamo le nostre preferenze attraverso scrolling e clic. Gli stessi giornalisti, formatisi sui media tradizionali, oggi fanno il percorso inverso, aggiungendo al loro bagaglio professionale anche un percorso simile a quello dei creator. Secondo Nic Cariglia, è necessario superare certe rigide distinzioni: «Se c’è competenza, patentini e background contano poco. Il creator può essere giornalista e il giornalista può essere creator».

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In molti, tra addetti ai lavori e semplici utenti, criticano questa nuova e prepotente wave, sollevando dubbi sulla statura morale e deontologica degli info-encer, che non avrebbero l’etica professionale propria dei giornalisti. E in tal senso, forse, ci si potrebbe domandare cosa sia più probabile, che un creator acquisisca l’esperienza e la sensibilità di un giornalista nel tempo, o che al contrario i giornalisti si adeguino all’immediatezza comunicativa dei creator ed eguaglino i loro numeri. Probabilmente, lo scenario più verosimile è che nel futuro prossimo queste due figure finiscano per ibridarsi e di conseguenza coesistere nel panorama mediatico. «Ma attenzione», dice Mandarò, «non si pensi che con i nostri numeri possiamo spostare gli abbonamenti di una piattaforma. Ciò che noi possiamo fare è creare contenuti di valore. Prendi Lisa Offside a Sky Sport: ha un modo di raccontarti protagonisti ed eventi che i giornalisti tradizionali non hanno. Sono meno rapidi, meno accattivanti, meno freschi. Forse mi sentirei sprecato a fare il bordocampo per un broadcaster. Perché perderei la creatività che ci metto sulle mie piattaforme personali».

Nel caso di Cariglia, Danese e Mandarò, si parla di calcio, spaziando dall’analisi approfondita alla leggerezza dei contenuti. Spesso si tratta di video di pochi minuti, d’impatto, quasi sempre virali. Ma cosa c’è dietro un video? «Per un minuto di video, ci sono circa tre ore di lavoro», racconta Cariglia. «Prendi un video di analisi tattica: io guardo la partita su due schermi, tengo con me i miei due blocchetti di appunti. Poi c’è la scrittura del video, quindi la registrazione e infine il montaggio». Dietro a ogni video c’è un approccio scientifico: «C’è una struttura fissa: gancio, call to action, chiusa finale. Molto semplice. Ogni video è scritto, scriptato, ha una struttura ben delineata», spiega Danese. È soprattutto la scrittura del video il momento cruciale: «Se non catturo immediatamente la tua attenzione, tu vai via. Ma non posso catturarla prendendoti in giro. Devo dirti qualcosa di forte e interessante», aggiunge Cariglia.

I creator stanno svecchiando il modo classico di comunicare: «Io faccio un contenuto leggero ma dietro c’è uno studio. Una credibilità che io costruisco attraverso la ricerca e le fonti. Il risultato è un ibrido. Forse è il nuovo modo di comunicare, cioè mascherare l’informazione da intrattenimento e rendere l’informazione intrattenente», la lettura di Mandarò. Un creator, secondo Cariglia, è innanzitutto un organizzatore: «Se pubblichi ogni giorno, è possibile solo con una grande organizzazione. Io mi faccio un piano-turni come fossi in una redazione. Ho un’ora di benchmark a settimana, quattro ore di struttura, sette di produzione. La differenza è che io sono il capo di me stesso».

Entrando nel merito dei contenuti che funzionano di più, i più virali (di solito video di un minuto con didascalie), esiste forse il rischio di una semplificazione progressiva dell’informazione, una dispersione della qualità che – in molti casi – ha bisogno di spazio e tempo per trovare posto e legittimazione e che non sempre può essere racchiusa in un video breve e a effetto. Forse non bisogna scivolare nella persuasione che una storia, per essere bella e interessante, debba esclusivamente fare colpo. Gli utenti richiedono contenuti sempre più veloci e diversi, è vero, con una preferenza orientata all’evasione e allo svago, ma non tutte le storie (tantomeno l’informazione) possono essere esaurite nel tempo di un video-reel. Danese precisa però che «quei contenuti sono solo una parte del nostro ventaglio, ma bisogna accettarli in un momento storico in cui la soglia di attenzione si è abbassata».

La differenza, secondo loro, è nell’approccio. Una delle qualità forse meno visibili dei creator è la loro capacità di abbattere il muro comunicativo, non solo con gli utenti, ma anche con chi fa parte direttamente del mondo dello sport-spettacolo. «Se ci dai un cellulare in mano, noi siamo capaci di raccontarti un evento, una partita, una giornata con uno sportivo», dice Mandarò. Gli fa eco Danese: «Se incontro Bellingham fuori dal Bernabéu, magari ho 10 secondi per fare un contenuto e lo faccio col mio cellulare. Se invece gli fai domande seriose, magari si rompe le palle. I calciatori hanno la nostra età. Devi avere un equilibrio con loro». Aggiunge Cariglia: «Credo che loro in noi vedano degli alleati dal punto di vista calcistico e comunicativo. Tra giocatori di A e B sono sempre più numerosi quelli che mi seguono. Mi gratifica».

Il loro mestiere è più intrecciato di quanto si pensi con il mondo dello sport: «Sento una responsabilità», continua Cariglia. «Sento di poter influenzare il pensiero di alcuni sulla valutazione di un giocatore o di un allenatore. Non devi essere d’accordo con me. Io ti mostro una cosa che diventa uno strumento per la tua analisi». Il rischio principale che corrono gli info-encer risiede forse nella continua evoluzione delle piattaforme, che cambiano continuamente sembianze e regole algoritmiche, influenzando le abitudini di chi ci lavora. «L’evoluzione frenetica dei social è una difficoltà», conclude Cariglia. «Ma finché sento un fuoco dentro che mi muove, è bello così. Devi continuamente aggiornarti. Io oggi sento di aver trovato una chiave per la mia comunicazione. Quando stai tanto sui social, sviluppi una sensibilità che ti permette di trovare una formula. Per ora, va bene così».

Da Undici N° 60





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