L’improvviso taglio del sostegno USA alle organizzazioni della società civile straniere sta mettendo in crisi anche numerose testate, soprattutto in Europa centro-orientale. La loro voce è importante per la democrazia, ma non esistono molte alternative percorribili per la loro sostenibilità
Negli ultimi decenni l’Unione europea, gli Stati Uniti e le fondazioni Open Society sono stati importanti finanziatori dei media europei e hanno permesso a molte testate indipendenti di nascere e crescere, soprattutto nei Paesi dell’Europa centro-orientale. L’impegno decennale di questi donatori sta però ora diminuendo in modi bruschi e imprevisti, per certi versi drammatici.
Nell’agosto 2023 Open Society ha infatti annunciato un drastico ridimensionamento delle sue attività in Europa, mentre il 24 gennaio di quest’anno l’amministrazione Trump ha annunciato la sospensione immediata di tutti i finanziamenti e le operazioni all’estero garantite dall’agenzia governativa USAID, che dovrebbe essere addirittura abolita. Sempre a gennaio, l’amministratore delegato di Meta Mark Zuckerberg ha annunciato forti tagli al programma dell’azienda che sosteneva decine e decine di testate impegnate nel fact-checking.
Restano operativi i programmi per i media promossi dall’UE, che però destina a questo settore una frazione davvero minima del suo bilancio – che peraltro andrà rinegoziata nei prossimi mesi, in un contesto che già registra notevoli pressioni per ridurre il sostegno dell’UE alle organizzazioni della società civile.
La crisi strutturale dell’industria dell’informazione
In Europa e altrove, l’industria giornalistica si trova ormai da anni in difficoltà così serie che moltissime testate non potrebbero operare – o dovrebbero operare su scala molto più ridotta – se non ricevessero un sostegno finanziario da enti o agenzie pubbliche oppure da donatori privati, come le fondazioni o singoli filantropi.
Fanno eccezione un numero ristretto di testate che possono contare su un grande numero di abbonati o su nicchie molto entusiaste e fedeli, e le testate che si sostengono quasi solo grazie a pubblicità o sponsorizzazioni, ma che per questo spesso pubblicano giornalismo di bassa qualità, che costa poco produrre (molte scopiazzature, poche verifiche, poca cura) ma riesce a generare un ampio traffico soprattutto grazie ai meccanismi dei social media. In alcuni Paesi poi le testate filo-governative possono ricevere altre forme di sostegno diretto o indiretto da parte dei gruppi al potere.
In molti casi, il giornalismo investigativo e di approfondimento, il giornalismo collaborativo, molto giornalismo locale di qualità – tutte quelle manifestazioni cioè del giornalismo che arricchiscono davvero il dibattito pubblico, tengono sott’occhio i potenti, e alimentano democrazie vivaci e plurali – non hanno più modo di sostenersi solo attraverso i tradizionali canali della pubblicità e del sostegno finanziario da parte dei loro lettori, entrambi entrati in crisi col passaggio a un sistema dell’informazione incentrato su internet.
“È diventato davvero difficile [per le testate, ndr] trovare un modello d’affari sostenibile che non si appoggi su qualche forma di finanziamento da parte delle istituzioni”, conferma Peter Erdelyi, direttore del Centro per i Media Sostenibili, un’organizzazione ungherese.
È una situazione assai familiare a chiunque lavori nel settore dei media, ma di cui i giornali tendono a non parlare. La reticenza deriva soprattutto dal desiderio di non offrire ulteriori argomenti di delegittimazione ai tanti critici del lavoro dei giornali, che sono numerosi sia all’interno dell’opinione pubblica che nelle classi dirigenti.
Ammettere di ricevere – o addirittura di dipendere per la propria sostenibilità – da finanziamenti esterni esporrebbe infatti ancora di più le testate all’accusa di essere prezzolate ed etero-dirette, tanto più visto che tre dei maggiori finanziatori dei media europei negli ultimi decenni sono state realtà assai impopolari come l’Unione europea, gli Stati Uniti e le fondazioni Open Society create da George Soros.
Tutelare l’indipendenza editoriale
Allo stato attuale, neanche la nostra testata sarebbe peraltro in grado di operare se non potesse contare sulle risorse che riceve dalla Provincia Autonoma di Trento e dalla Commissione europea (tramite i bandi pubblici che abbiamo vinto, presentando progetti che però tipicamente durano solo uno o due anni).
Non vendiamo infatti pubblicità e offriamo gratis i nostri contenuti, e gli abbonamenti permettono di coprire solo una parte irrisoria dei nostri costi. In passato abbiamo realizzato un paio di progetti con il sostegno della fondazione Open Society.
Nessuno di questi donatori è mai intervenuto per “dettarci la linea” sul tipo di giornalismo che facciamo, sulle storie che scegliamo di coprire, e sul modo in cui decidiamo di farlo. I grandi donatori istituzionali o privati occidentali sono infatti, nella maggior parte dei casi, sufficientemente consapevoli della delicatezza del loro ruolo da prevedere procedure e meccanismi precisi a tutela della piena libertà editoriale delle testate che sostengono.
Da parte loro, le testate che cercano o accettano questo tipo di finanziamenti sono sufficientemente serie da pretendere chiare garanzie per la propria libertà editoriale e respingere ogni possibile interferenza. Per ridurre ulteriormente il rischio di subire influenze esterne – o allontanare le tentazioni di autocensura – la maggior parte delle testate cerca inoltre di evitare di dipendere da un unico donatore, differenziando le sue fonti di finanziamento.
Esistono poi dei meccanismi che tutelano l’indipendenza delle testate. Per esempio, alcuni dei programmi a favore dei media europei sostenuti dagli Stati Uniti tramite l’agenzia USAID erano gestiti da organizzazioni terze che facevano da filtro tra il donatore e le singole redazioni, come Internews o IREX. In altri casi, alcuni finanziamenti per il giornalismo forniti dall’UE o da fondazioni private passano attraverso progetti o organizzazioni terze, come Journalismfund, Civitates o IJ4EU, che poi distribuiscono i fondi alle singole testate in base a scelte libere e criteri trasparenti.
Nonostante l’esistenza di meccanismi di tutela dell’indipendenza editoriale, l’opportunità per le testate di accettare finanziamenti da parte di donatori pubblici è comunque vivacemente discussa all’interno della stessa comunità dei giornalisti e dei media. In particolare, il mondo del giornalismo investigativo è stato recentemente scosso e diviso da un’inchiesta promossa dalla testata francese Mediapart, che ha accusato il celebrato progetto transnazionale OCCRP di avere dei legami finanziari troppo stretti con gli Stati Uniti.
D’altra parte, anche la dipendenza finanziaria dalla pubblicità o dagli abbonamenti comporta dei rischi di condizionamento per l’attività giornalistica. La pubblicità può orientare la copertura di certe aziende, spingendo a glissare su certe criticità oppure a dare una visibilità apparentemente ingiustificata ad alcune iniziative promosse dagli inserzionisti.
Neppure gli abbonamenti sono privi di rischi per l’autonomia delle redazioni: in contesti politici sempre più polarizzati i giornali possono infatti essere spinti a piegare la loro linea editoriale in modo da assecondare le priorità politiche degli abbonati, che possono minacciare la disiscrizione se la testata viene percepita come non sufficientemente schierata. Ci parlavano di questa tensione, per esempio, i giornalisti indipendenti ungheresi che abbiamo incontrato lo scorso anno a Budapest: la copertura obiettiva delle magagne di alcune forze di opposizione al governo Orban scontentava alcuni lettori al punto che hanno cancellato il loro abbonamento, e le testate hanno limitato la copertura.
L’impatto dei tagli
Secondo Oksana Romaniuk, direttrice dell’Istituto per l’informazione di massa (IMI) in Ucraina, USAID collaborava con circa l’80% dei media ucraini. Coi suoi 75 milioni di dollari di budget, il programma Media – istituito proprio grazie al sostegno di USAID nel 2018 e implementato da Internews – costituiva il maggiore investimento straniero nel giornalismo ucraino. Nel complesso, il Global Forum for Media Development (GFMD) stima che negli ultimi anni gli Stati Uniti abbiano garantito il 70-80% dell’assistenza straniera a favore dei media in Ucraina.
I finanziamenti USAID hanno sostenuto le testate indipendenti, contrastato la disinformazione e rafforzato le organizzazioni che proteggono la libertà di stampa nel Paese. Anche grazie a questi sforzi, la libertà di stampa ha registrato miglioramenti significativi in Ucraina, che ora supera pure alcuni Paesi dell’UE nell’annuale classifica redatta da Reporter Senza Frontiere.
Per quanto speciale, quello ucraino non è un caso isolato. Per esempio, il giornalista Aleksandar Manasiev ritiene che USAID sia stata di grande aiuto per lo sviluppo dei media anche in Macedonia del Nord. “Grazie a progetti sostenuti da USAID e da altre organizzazioni internazionali, centinaia di giornalisti e professionisti dei media hanno ricevuto formazione […] Quei finanziamenti hanno consentito a team investigativi di occuparsi di corruzione, stato di diritto, diritti umani, e altre questioni sociali importanti”, spiega Manasiev. Secondo il GFMD, anche nei Balcani occidentali i finanziamenti statunitensi hanno coperto il 70% dell’assistenza fornita ai media della regione da Paesi stranieri negli ultimi anni.
La fine di molti finanziamenti sta avendo un impatto serio su molte testate europee – soprattutto su quelle più esposte, come le testate che si dedicano al giornalismo indipendente di qualità, investigativo o di approfondimento in contesti dove la libertà di stampa è relativamente fragile e il mercato dei media è troppo piccolo per offrire alternative sostenibili basate solamente sul mercato.
È il caso di molti Paesi dell’Europa centrale e sud-orientale, dove la mera dimensione della popolazione nazionale pone un limite piuttosto basso al numero di abbonamenti che una testata può pensare di raccogliere. Secondo Peter Ederly, “se vivi in una piccola comunità in Ungheria, Polonia, Romania o Bulgaria, una testata non ha semplicemente modo di fare abbastanza soldi producendo contenuti per te. [In quel genere di contesti, ndr] non ci sono abbastanza inserzionisti pubblicitari, e non ci sono abbastanza possibili abbonati”.
A seguito dei recenti tagli, alcune testate europee potrebbero essere costrette a ridimensionare molto le attività e gli investimenti nello sviluppo di nuove competenze o prodotti, se non a cessarli del tutto. Per esempio, stando a quanto riportano alcuni rappresentanti dei media e delle associazioni di categoria, a causa della sospensione dei fondi statunitensi diverse testate in Bosnia Erzegovina non sono attualmente più in grado di pagare gli stipendi. Come altrove, sono il giornalismo investigativo e le testate locali a risultare particolarmente colpite.
Quali prospettive?
Le difficoltà finanziarie potrebbero esporre alcune testate a tentativi di acquisto da parte di oligarchi o imprenditori vicini al potere politico e interessati ad addomesticarle – come è già successo, per esempio, nell’ultimo decennio a molte testate ungheresi un tempo indipendenti o critiche nei confronti del governo Orban e oggi in mano a imprenditori legati a esso.
“Qualcuno potrebbe cercare di approfittare della situazione per prendere il controllo dello spazio mediatico, dominarlo e trasformarlo in uno strumento di influenza”, ammonisce Oksana Romaniuk. Un sondaggio condotto dall’istituto che dirige ha rilevato che tre giornalisti ucraini su cinque temono che i tagli ai finanziamenti possano avere “conseguenze catastrofiche”.
Di sicuro, il dibattito pubblico in molti Paesi europei rischia di uscirne ulteriormente impoverito, ritrovandosi con meno voci e più fragili, e con una copertura giornalistica meno accurata e incisiva.
Per questo, a seguito delle decisioni dell’amministrazione Trump, la Federazione Europea dei Giornalisti (EFJ) ha rivolto un appello a tutti i possibili donatori europei affinché si attivino e intervengano per compensare i tagli statunitensi, che secondo EFJ mettono a rischio in particolare varie testate ucraine e kosovare e l’attività dei giornalisti bielorussi in esilio. La presidente della Federazione, Maja Sever, ha invitato “le istituzioni e fondazioni europee a mobilitarsi e coordinare le loro azioni in modo da proteggere il pluralismo dell’informazione e sostenere il giornalismo indipendente”.
Se i giornalisti non godessero di scarsa popolarità – e se il pubblico fosse più consapevole della crisi strutturale in cui versa l’industria dell’informazione e delle sue conseguenze politiche – sarebbe il caso di aprire in Europa un dibattito serio sull’introduzione di finanziamenti pubblici strutturali al giornalismo, che è un bene comune e che nutre la democrazia. L’ordine di grandezza di questi finanziamenti sarebbe peraltro assai limitato rispetto a tante altre spese delle istituzioni.
Senz’altro, andrebbero previsti meccanismi opportuni – diversi da quelli, discutibili , previsti in Italia dal fondo per l’editoria – per isolare le testate da favoritismi o pressioni da parte del potere politico, scongiurare la tentazione dell’autocensura, e favorire il giornalismo indipendente e di qualità.
L’intervento pubblico aiuterebbe inoltre a contrastare la tendenza attuale, in cui sempre più contenuti di qualità sui siti di informazione online sono riservati ai soli lettori abbonati, e dunque preclusi a tutti coloro che non possono permettersi di sottoscrivere uno o più abbonamenti.
Secondo Peter Erdely, “il modello d’affari del giornalismo è stato sconvolto a tal punto che mi sono convinto che un sostegno pubblico ormai è necessario,. […] Non si tratta di chiedersi se il sostegno pubblico sia una soluzione ideale: per me non lo è. Ma l’alternativa sarebbe smettere del tutto di avere alcune forme di giornalismo”.
Alla realizzazione di questo articolo hanno contribuito Andrea Braschayko, Aleksandar Samardjiev e Lola García-Ajofrín (El Confidencial, Spagna).
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