Boxe e teatro, sport e arte, tenacia e fantasia. Gli anni passano ma Patrizio Oliva resta un mito intramontabile, da quella incredibile impresa che lo portò sul tetto del mondo, campione olimpico a Mosca 1980, in piena guerra fredda. Mai domo e “con gli occhi della tigre”, portò poi a casa anche il titolo di campione dei superleggeri entrando nei libri di storia.
Ma la storia Oliva continua a scriverla anche oggi vincendo la sfida di appendere i guantoni per indossare l’abito di attore, con risultati lusinghieri. Per un personaggio del genere occorrono vini all’altezza, capaci di rapire e coinvolgere i sensi. Uno di questi è il Pigato ligure, fusione di morbidezza e sapidità, armonia e freschezza. Ne puoi bere anche una bottiglia e sentirti fresco come al primo calice tanto è il suo equilibrio. Ma per descrivere meglio gli aspetti caratteriali del pugile napoletano, nato nel popoloso quartiere di Poggioreale da cui si è arrampicato fino al paradiso, occorre spostarsi dalla Liguria al Molise. Una piccola regione, capace però di plasmare un rosso indimenticabile come il Tintilia: strutturato, intenso e potente, come poteva esserlo un pugno sferrato dal campione di boxe, difficile da dimenticare.
Infine l’immancabile Campania, che si sta affermando nettamente come regione vitivinicola completa, in grado di esprimere bianchi, rossi, rosati, spumanti e persino passiti. Se fosse un vino campano, Oliva sarebbe il Satyricon di Luigi Tecce, fratello minore dell’immenso Taurasi Poliphemo ma in grado di trasmettere nel calice l’amore che il suo demiurgo infonde in ogni bottiglia che produce. Un vignaiolo carismatico per un atleta magnetico, il pugile umile, capace di metterti al tappeto col sorriso, oltre che con un destro perfetto. Knock out, prosit.
«Come diceva Totò? Il vino bianco va servito assiderato».
“Siamo uomini o caporali?”
«Film strepitoso. Il vino “assiderato” è una delle sue indimenticabili battute».
Quindi le piace il bianco molto freddo.
«Preferisco il rosso ma un calice di Falanghina deve essere ghiacciato».
Falanghina?
«L’ho scelta pure per il mio matrimonio, Falanghina di Benito Ferrara, piccola azienda nel Comune di Tufo».
Vino campano.
«Valorizziamo il territorio. Oggi finalmente la nostra produzione sta riscuotendo il successo che merita».
Quanto può bere un atleta?
«In allenamento l’alcol è bandito. Un dito di spumante solo se vinci, altrimenti niente. Per anni non ho toccato un goccio di vino, ma nemmeno una birretta, per non parlare di roba tipo vodka, gin, whisky».
Sta recuperando il tempo perduto.
«Resto un bevitore moderato. Nel senso che un buon bicchiere mi piace se posso condividerlo con gli amici, con mia moglie, da solo la bottiglia non la apro».
Però se ne intende.
«Da quando frequento Maurizio Marino un poco sì, è il mio produttore teatrale, che è anche un esperto sommelier. Con lui ho cominciato ad apprezzare il Barolo».
Cuore pulsante delle Langhe.
«Ne ho provati alcuni strepitosi. Non solo il Barolo, anche il Nebbiolo, il Dolcetto, il Barbera, ho scoperto un mondo».
Merito del suo produttore.
«Ottimo compagno di bevute, e di palcoscenico».
Da pugile ad attore.
«Più facile di quanto si possa pensare. La mia seconda vita in realtà la sto dedicando al teatro, un teatro ovviamente collegato allo sport che mi ha regalato grandi soddisfazioni».
Campione olimpico e campione del mondo, uno dei pochi pugili a esserci riuscito.
«È una delle ragioni per le quali ho deciso di portare la mia vita sul palco. Volevo che i giovani sapessero che c’è sempre una possibilità di riscatto anche quando davanti a noi abbiamo solo il buio. E di momenti bui ne ho vissuti parecchi».
Torniamo al vino.
«Beh dopo lo spettacolo un bicchiere è obbligatorio».
Bevuta d’ordinanza.
«Appena cala il sipario il primo pensiero è quello di andare a mangiare e bere. La fame si fa sentire e anche la voglia di scaricare un po’ di adrenalina».
Preferenze?
«Di solito i vini del posto. Quando siamo in tournée mi piace provare le etichette locali, una delle prime regole che mi ha insegnato il mio produttore sommelier. Per capirci: non berrei mai un Brunello in Sardegna».
Che cosa berrebbe?
«Lo so, rischio di essere scontato, berrei Cannonau e Vermentino. Il primo secondo me è il vero simbolo sardo, rosso corposo, sanguigno; il secondo è perfetto come aperitivo. Poi c’è il Carignano, credo sia un po’ meno conosciuto ma merita».
Quanto spende mediamente per una bottiglia?
«Oggi molto meno, prima lo sceglievo solo in base al prezzo. Capendone poco o niente mi orientavo verso le etichette che costavano di più, pensavo: più so’ care meglio è».
Non funziona così?
«Il vino buono costa, lo sappiamo, ma basta qualche dritta giusta per trovarne di ottimo a prezzi accessibili».
Quando si dice un buon rapporto qualità prezzo.
«E però devi sapere che cosa comprare. Ero abituato a spendere almeno settanta, ottanta euro a bottiglia. Oggi me la cavo con ben meno della metà e bevo bene lo stesso».
Qualche consiglio?
«Mah, ormai sono tanti i vignaioli che producono vino buono e conveniente. Il Primitivo di Manduria è sicuramente uno di questi, penso al Talò di San Marzano, ottimo e non caro. Oppure il Critone Librandi, bianco calabrese, la bottiglia dovrebbe costare intorno ai 10 euro ed è gradevolissimo».
Il ricordo di un brindisi dopo una vittoria.
«Ne ho tanti anche da allenatore della Nazionale».
Uno su tutti.
«In Bielorussia con Giacobbe Fragomeni che vinse il Campionato europeo. La sera andammo a festeggiare, ordinammo una bottiglia di vino rosso, ci portarono anche dei sigari cubani, io non fumo ma in quell’occasione decisi di provare. Non l’avessi mai fatto, la testa partì, mi sembrava di stare su una giostra. Inizialmente pensai di aver bevuto troppo, poi capii che la colpa era del sigaro».
Brutta esperienza.
«Da quella volta vai col vino ma tabacco mai più».
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