“Le sanzioni occidentali rafforzano l’economia russa” era il refrain di Putin, imparato a memoria perfino dai suoi sudditi, alcuni dei quali hanno confermato anche a chi scrive che tutto sommato non si erano neppure accorti di esse, non essendo cambiato nulla per loro. In realtà, leggendo la stampa russa di questi giorni, pare che le sanzioni qualche male lo abbiano fatto agli eredi di Tolstoj, visto che è uno dei temi che si leggono sempre più spesso negli articoli scritti in cirillico.
In questa ottica si spiega l’entusiasmo con cui sono state accolte le parole del ministro degli affari esteri ungherese, Péter Szijjártó (vedi ad esempio Izvestia del 20 febbraio), il quale, il 19 febbraio a Washington, prima dell’incontro con il segretario al Tesoro statunitense, ha dichiarato che intende discutere con la leadership statunitense la revoca delle sanzioni economiche contro la Russia, incluse quelle energetiche, per il fatto che “sono dannose per l’Ungheria”.
A parte la circostanza che l’aspettativa del politico ungherese assomiglia molto ad una ipotetica richiesta dei ricettatori, i quali, avendo bisogno di guadagnare con la merce rubata, potrebbero, con la medesima logica, richiedere di cancellare le sanzioni penali per la loro attività e per quella dei ladri, è evidente che Szijjártó ha sbagliato completamente indirizzo per esprimere le proprie pseudo-aspirazioni, visto che, da una parte, alla luce delle recenti dichiarazioni di Trump, è probabile che gli Usa, non solo cancelleranno qualsiasi sanzione nei confronti della Russia, ma perfino stringeranno un’alleanza economica con Putin e i suoi, e dall’altra, le sanzioni a cui l’Ungheria è obbligata a partecipare non sono decise a Washington, bensì a Bruxelles.
Quest’ultima, per far capire che aria tira ancora per la Russia, ha pensato bene, con il Coreper, l’organo che definisce le decisioni che poi i ministri dell’Ue ufficializzano in occasione delle riunioni del Consiglio, di approvare il 19 febbraio scorso un 16° pacchetto di sanzioni, che riguardano le importazioni di alluminio dalla Russia, e l’utilizzo di petroliere “ombra”, grazie alle quali i russi sono riusciti negli ultimi tempi a sfuggire alle sanzioni che impediscono l’importazione di petrolio russo in Europa (come dimostra anche la crescita del 50% di importazioni di prodotti energetici russi in Italia nel 2024, rispetto al 2023, come ricordato in un articolo uscito il 2 febbraio).
Il fatto che queste petroliere ombra, essendo vecchie, siano molto pericolose, come dimostra l’affondamento di 2 di esse a dicembre scorso nel Mar Nero, che ha causato il versamento di diverse migliaia di tonnellate di prodotti petroliferi in mare, non interessa tanto ai russi, i quali, con tutta evidenza, hanno una sensibilità verso i problemi ambientali e climatici del nostro pianeta non superiore a quella che hanno i nostri animali domestici.Dunque queste ulteriori restrizioni, utili anche per l’ambiente, entreranno però in vigore solo dopo che questo 16° pacchetto verrà approvato da un prossimo Consiglio dell’Ue.
Va detto però che i primi 15 pacchetti di sanzioni comunitarie contro Mosca hanno colpito già 2.400 tra persone e aziende russe, congelando i loro fondi nell’Ue, per un totale di 28 miliardi di euro di asset privati, come risulta da una nota della Commissione europea di dicembre 2024, a cui però bisogna aggiungere i circa 200 miliardi di euro della Banca centrale russa, anche essi congelati presso Euroclear, che ha sede in Belgio. A questo riguardo è interessante la stima precisa che ha fatto il Ministero delle Finanze del Belgio, resa nota il 19 febbraio, secondo cui in quel paese sono stati congelati 258 miliardi di euro di ricchezze finanziarie russe, di cui 193 appartenenti alla Banca centrale di Mosca.
Insomma, il conto salato dell’attacco ingiustificato e non provocato all’Ucraina (circostanze palesemente dimenticate dal nostro SuperDonald, aspirante compagno di merende di Vladimir I), che è avvenuto il 24 febbraio 2022, ossia esattamente 3 anni fa, è stato fatto pagare soprattutto dall’Europa, e non per caso, visto che l’economia russa, alla vigilia del conflitto, era molto più interconnessa con quella europea, piuttosto che con quella americana.
Va detto che le sanzioni europee (e anche quelle americane decise dall’ex presidente Biden), hanno colpito tutti i principali settori economici della Russia, da quello finanziario (con la messa al bando di qualsiasi movimento di soldi), a quello energetico (vietando quasi tutte le importazioni di materie prime energetiche dalla Russia, e sanzionando a determinate condizioni chi le trasporta), passando per i divieti nel settore dei trasporti (in particolare quello aereo, con la cessazione dell’assistenza tecnica degli arerei europei operanti in Russia, e del diritto di volo nei cieli europei), e i numerosi embarghi per l’interscambio commerciale Ue-Russia (tra cui il divieto di esportazione di tecnologie europee).
A questo si aggiunge il fatto che dal 2022 ad oggi ben 1.050 aziende occidentali sono andate via dal mercato russo, mentre 328 hanno ridotto la loro presenza, a fronte di sole 212 imprese europee, americane e giapponesi, che hanno continuato ad operare come prima del conflitto, come risulta dal monitoraggio effettuato dalla statunitense Yale University, i cui dati sono aggiornati al 21 febbraio 2025.
Questa scomparsa di tante aziende occidentali, decisa in modo autonomo da esse, salvo per il settore bancario (avendo la Bce fatto una richiesta in tal senso alle banche europee), i cui beni e servizi facevano parte del vissuto quotidiano di molti dei 143 milioni di cittadini russi, deve aver fatto altrettanto male, al pari delle sanzioni, come fa sospettare una dichiarazione del 19 febbraio dell’amabilissima Maria Zacharova, portavoce del Ministero degli Esteri russo, secondo cui “per riprendere le attività in Russia, le aziende occidentali devono rispettare la storia della Russia, e i suoi eroi”.
D’altronde perché ipotizzare una situazione improbabile, se non la si desidera sotto sotto?
E’ evidente, però, che alla follia che spazza Mosca e dintorni (e che sembra essere arrivata anche a Washington recentemente), si è innestata la speranza (alimentata ovviamente dall’atteggiamento di Trump nei confronti della Russia) di attendersi un vero trionfo catartico per Putin e i suoi, nell’ambito del quale si sogna che le aziende occidentali, ovviamente in ginocchio, rientrino a testa bassa nel mercato russo, per servirne i consumatori.
Certo è che, almeno per il momento (visto che bisognerà vedere se Trump riuscirà veramente a costringere Zelensky a chinare la testa, e ad accettare una bruciante sconfitta), i Russi sono quasi increduli per tanta fortuna, tanto più che, come risulta da diversi articoli pubblicati in questi giorni dai quotidiani in cirillico, le cose per l’economia russa stanno volgendo veramente al peggio.
D’altronde il titolo di un pezzo del 20 febbraio di Kommersant “Le piccole imprese [russe] tremano nell’attesa”, la dice lunga sullo stato d’animo degli imprenditori di Mosca e dintorni. In questo articolo si scopre che il sentiment delle Pmi è in peggioramento negli ultimi mesi, visto che, da una parte, non sono riuscite a riempire, con i propri prodotti, gli spazi di mercato lasciati dalle aziende occidentali andate via, e, dall’altra, non hanno avuto accesso ai finanziamenti, stante lo stratosferico tasso di interesse superiore al 20%, deciso dalla Banca centrale russa.
Insomma, a gennaio 2025, solo il 29% delle Pmi russe spera in una crescita del fatturato, e solo il 17% pensa di effettuare investimenti, percentuale che scende al 9% quando si tratta di nuove assunzioni. Che le cose vadano male per il settore privato russo lo conferma pure Kirill Varlamov, direttore del Fondo di investimento Iifd, che ha ammesso a Kommersant che ci sono sempre meno investimenti come capitale di rischio nelle imprese russe, tanto che nel 2024 solo 159 aziende russe hanno ricevuto finanziamenti, per un ammontare complessivo ridicolo, ossia per appena 101 milioni di dollari (spiccioli a qualsiasi latitudine). Insomma, usando le parole del finanziere russo, “il mercato del capitale di rischio è crollato nel 2022, e non è più risalito”.
D’altronde, si sa che l’economia russa galleggia grazie alle ricche risorse naturali di cui è dotato il suo territorio, fra cui materie prime energetiche, tanti minerali, ed oro in abbondanza, in assenza delle quali essa sarebbe già schiantata da tempo.
Questa ipotesi viene confermata da un articolo di Izvestia del 20 febbraio, a firma di Olga Anasyeva, secondo cui il Fondo nazionale di previdenza (le cui risorse consentono di offrire ai pensionati russi la bellezza di un trattamento mensile non superiore a 200 euro), che è stato il salvadenaio di Putin, con il quale ha coperto i propri deficit pubblici sempre più enormi, e ha finanziato i progetti infrastrutturali, grazie ai quali tiene buoni i suoi sudditi, pur essendo pari a 120 miliardi di euro a febbraio 2025, la sua quota liquida (ossia spendibile) è scesa a 37 miliardi, dagli 85 mld di 3 anni fa (ossia prima del conflitto). Secondo Olga Belenkaya, responsabile del dipartimento di analisi macroeconomica di FG Finam, intervistata da Izvestia, continuando così, “la componente liquida e spendibile del Fondo si esaurirà in 1,5 anni, salvo crescita delle quotazioni delle materie prime energetiche”, la cui vendita aveva in passato alimentato il Fondo stesso.
Insomma, per ammissione degli stessi russi, le cose vanno male dalle parti del Cremlino, ed evidentemente la Cia è andata in vacanza, se Trump afferma che la Russia “ha tutte le carte nelle sue mani”.
Certo è che sarà dura convincere i paesi europei a mollare quel boccone di 258 miliardi per ridarli a Putin, i quali, forse, farebbero bene a confiscarli definitivamente, per difendere un principio di civiltà, negato con l’attacco russo di un altro paese, senza un motivo reale, o meglio, per una squallida conquista territoriale (pagata con molte decine di migliaia di morti e centinaia di migliaia di feriti, e con la distruzione di moltissime infrastrutture civili, fra cui una diga, con scomparsa di un lago enorme), per di più senza senso, visto che l’area conquistata all’Ucraina rappresenta solo lo 0,5% del territorio russo, e farla poi franca, mentre i contribuenti europei, inclusi quelli italiani, hanno speso soldi proprio per difendere quel principio di civiltà.
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