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Quando il processo penale è strumentalizzato a fini politici


Comprensibilmente scottato dalla simbolica condanna per aver rivelato un preteso segreto d’ufficio, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove ha espresso un pensiero non banale.

Egli, avvocato penalista, ha avvertito pungente l’esito ai suoi danni del giudizio n primo grado: e sinceramente non saprei dargli torto perché – in un Paese in cui non c’è informazione che, coperta formalmente sotto la coltre del segreto d’indagine, non circoli liberamente come libero uccel nel bosco – esser poi condannato per una dichiarazione in Parlamento resa da un deputato nell’esercizio delle sue funzioni, il Donzelli, che quella notizia da lui ha ricevuto e che bene avrebbe fatto a non dichiararne la fonte, beh fa sorridere, sempre non rattristi.

Che non debba cioè rattristare la strumentalizzazione del processo penale a fini politici: pratica da noi ormai più che collaudata. Ma torniamo alla dichiarazione del Del Mastro. Egli ha lamentato che a fronte di alcune sue espressioni critiche, immediata è stata la levata di scudi della magistratura più o meno associata, spalleggiata immancabilmente dalla parte politica opposta al destinatario del momento delle sue iniziative o condanne.

Ed il Del Mastro ha irrotto in una dichiarazione, a mio avviso ragionevole, stante l’attuale contesto: paragonando i nostri togati associati agli Ayatollah, sacerdoti delle virtù, insuscettibili di critica. È un’affermazione che coglie alcuni aspetti seriamente presenti nella funzione giurisdizionale e che, proprio perché reali, dovrebbero portare a ben altre condotte da parte degli appartenenti all’ordine giudiziario.

Anche senza rievocare il mitico Numa Pompilio ispirato dalla ninfa Egeria nell’amministrazione della giustizia, non ci si può nascondere che la funzione della giurisdizione – del dicereius, del dire il diritto – ha caratteristiche assai peculiari. Essa deve essere tendenzialmente ‘esclusiva’, non può ammettere obiezioni da parte di chicchessia.

Quando la giurisdizione ha parlato, affermando che le cose stanno così e così – naturalmente quando lo ha fatto in ultimo grado – non c’è nessuno che possa obiettare qualcosa: o almeno che possa farlo, mettendo in discussione gli esiti del processo. È così che stanno le cose e non potrebbe essere diversamente: per la semplice ragione che lo Stato – o meglio, le istituzioni pubbliche, quali che esse siano, a seconda degli ordinamenti vigenti, nazionali e sovranazionali – deve necessariamente arrogarsi ‘il diritto di dire il diritto’ e di farlo in modo esclusivo.

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Così non fosse, praticamente sarebbe il caos totale, dato che chiunque potrebbe nuovamente rimettere in discussione gli assetti aggiunti in ogni questione e l’instabilità dei rapporti che ne deriverebbe, renderebbe la società letteralmente invivibile, disorganizzata, incomponibile. Questo è vero, sullo sfondo le cose stanno proprio in tal modo.

Sicché, quand’anche tu voglia criticare le sentenze – quello che è sul piano della libertà d manifestazione del pensiero indiscutibile, da noi per l’articolo 21 della Costituzione – alla fine le cose resteranno quelle stabilite nella sentenza, almeno di non por mano ad una rivoluzione. E questo comporta anche una certa ricaduta: la tendenza dei giudici a considerarsi – come li definì un notevole studioso statunitensedel secolo scorso, Jhon Philip Dawson – ‘oracoli del diritto’.

Espressione efficace per segnalare un tratto inscindibile dalla funzione dello ius dicere: la presenza d’un ineliminabile tasso d’arbitrarietà nel dare soluzione ai casi, nel giudicarli. Un tasso d’arbitrarietà che nessun presidio, nessun obbligo motivazionale potrà mai evitare, per una ragione assai semplice: che i fatti son fatti, stati della realtà intessuti di azioni, eventi, trasformazioni di ciò che vediamo sotto i nostri occhi; le leggi sono invece manifestazioni linguistiche, parole quanto mai imprecise, descrizioni essenzialmente concettuali, assai lontane dalla fotografia della realtà su di essa plasticamente adagiata, e pure in questo caso sempre suscettibile d’interpretazione, un’interpretazione che sta già nello scatto: altrimenti saremmo tutti dei Cartier-Bresson.

Ma torniamo a noi. Se al giudicare s’accompagna inevitabilmente una funzione oracolare, allora questi oracoli devono essere credibili, ma credibili seriamente, ineccepibili nei limiti dell’umana possibilità. Perché, lo si voglia o meno, la decisione a loro s’imputa, almeno nella sua gran parte. E se io vengo giudicato da un uomo di parte, o che conduce vita dissoluta, o che sta lì sempre ad esibirsi ed a sparlare, a dir la sua pubblicamente, a porsi quale simbolo o paladino di qualcosa, io alla sua decisione non crederò più.

Le sentenze non sono mai qualcosa di gradito, perché esprimono un comando, un comando che si sovrappone a quel che noi vorremmo fosse o, almeno, che alcuni di noi vorremmo fosse. Sicché se il giudice si mette a far politica, partecipa attivamente ad organizzazioni che la fanno – come ad esempio accade con quella degenerazione dell’associazionismo magistratuale che sono le ‘correnti’ – quel giudice non sarà più credibile, verrà considerato uomo di parte ed attaccato per tale: e non potrà poi dolersene. È la natura della cosa che determina le conseguenze di come essa viene vista.

Fino ad una cinquantina d’anni fa, s’insegnava ai giudici la discrezione, la riservatezza, la moderazione nella parola, l’attenzione a non lasciarsi coinvolgere nelle vicende della politica, mai. Oggi, le cose son cambiate e sembra che il modello affermatosi sia quello opposto: del giudice iperattivo, iper-presente in ogni situazione pubblica, compresi i talk show.

Trasformatosi in soggetto protagonista della scena politica, non è più credibile quale giudice: e non può quindi lamentarsi se viene attaccato, ascritto ad una parte, che non è la giustizia bensì la fazione. E tutto, lentamente si decompone, perché la Giurisdizione, arbitro supremo dei conflitti, è indispensabile in qualsiasi organizzazione sociale. E da noi è nello stato che constatiamo. 

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