Sono passati due anni dalle primarie Pd che videro la vittoria a sorpresi di Elly Schlein, l’outsider che aveva preso la tessera poche settimane prima. La sua vittoria, vista come fumo negli occhi da larga parte dell’establishment che ruota attorno ai dem e ne condiziona le scelte, nacque sulle ceneri del Pd draghiano, che aveva sacrificato qualsiasi spinta riformatrice in nome dell’agenda dell’eurobanchiere.
Era un partito che nei sondaggi oscillava attorno al 15%, la sua sopravvivenza non era affatto scontata, e si parlava della doppia opa lanciata sui suoi resti dal M5S di Conte e dal duplex centrista Italia Viva- Azione. Due anni dopo, Schlein può legittimamente affermare di aver raggiunto uno dei suoi obiettivi: il Pd è attorno al 23% nei sondaggi, primo partito e leader indiscusso tra le opposizioni. E la segretaria, dopo il 24% delle europee, ha la ragionevole certezza di poter guidare la truppa fino alle politiche del 2027. Già oggi è la terza più longeva tra i segretari dem, dopo Renzi e Bersani, che hanno regnato per circa 4 anni ciascuno.
Sotto la sua leadership, il centrosinistra ha vinto le regionali in Sardegna, Umbria ed Emilia Romagna (le prime due erano guidate dal centrodestra) e le ha perse in Piemonte, Liguria, Abruzzo e Basilicata (tutte con giunte di destra uscenti). Quanto ai Comuni, ha riconquistato capoluoghi importanti come Cagliari, Perugia, Potenza, Campobasso, Udine, Foggia e Pavia, ha confermato la guida di Firenze, Bari e Bergamo, ha visto sconfitte pesanti come ad Ancona, Siena e Pisa. Nel complesso le coalizioni a guida Pd sono uscite abbastanza bene dalle elezioni locali del biennio, anche perché quasi ovunque si sono messe in piedi coalizioni competitive, superando i veti nazionali tra i rissosi componenti dell’area progressista.
Le profezie di chi, nel 2023, vaticinava un Pd pericolosamente spostato a sinistra sono state rapidamente smentite: si possono infatti registrare significativi cambi di linea solo su immigrazione (no agli accordi con la Libia, maggiore sostegno alle ong e più decisa critica alle politiche del governo Meloni, proposta di legge per superare la Bossi-Fini col permesso di soggiorno per ricerca di lavoro) e sui temi del lavoro: Schlein ha firmato i referendum della Cgil contro il Jobs Act di Renzi, tra i mugugni dell’ala destra del partito, e si appresta a sostenere la campagna per il sì di Landini; nelle crisi aziendali i dem hanno ripreso un certo protagonismo a fianco dei lavoratori in lotta, dalle fabbriche alle piazze, contro le chiusure e le delocalizzazioni; sui contratti ci sono proposte per limitare l’uso delle assunzioni a termine.
Sui temi di politica estera non è cambiato molto rispetto alle stagioni precedenti: sull’Ucraina la linea resta quella, con un maggiore accento sulla necessità di una soluzione diplomatica ma senza mai smarcarsi dalla linea del Pse sul sostegno militare, e una netta contrapposizione alla linea di Trump; sul Medio Oriente i dem non hanno mai seguito Avs nella richiesta di sanzioni europee contro Israele, come la sospensione dell’accordo di cooperazione, ma hanno condannato fermamente i massacri di civili palestinesi e promosso la risoluzione della Camera per un cessate il fuoco mesi prima che questo si realizzasse.
Sul piano interno, la linea «testardamente unitaria» verso le altre opposizioni ha dato qualche frutto nei voti locali, ma a livello nazionale i passi avanti fatti nella costruzione di una coalizione anti-Meloni sono stati pochi: certo per responsabilità di Conte, che non vuole essere annoverato tra i cespugli del Pd, ma ad oggi gli italiani di centrosinistra non vedono un fronte pronto a riconquistare palazzo Chigi. Né proposte in grado di far immaginare un cambiamento reale a favore di chi sta peggio, ad esempio sul fisco. L’idea di una patrimoniale ma solo su scala europea, ad esempio, non scalda. Così come l’impegno generico ad aumentare i fondi per la sanità pubblica rischia di non essere percepito da chi subisce i tagli nella propria vita quotidiana, con le lunghe liste d’attesa.
In due anni, Schlein non è andata oltre i titoli di un’agenda progressista: il fatto positivo è che prima il Pd non aveva un’agenda di sinistra; quello negativo è che i titoli non bastano per costruire una visione alternativa di Paese. Certo, la scena internazionale non gioca a favore della segretaria: nel giro di pochi mesi due dei principali partiti fratelli, i Dem americani e la Spd tedesca, sono tracollati, lasciando gli italiani sempre più soli nel far fronte all’ondata della tecnodestra oggi dominante.
E tuttavia questa solitudine potrebbe suggerire la necessità di un colpo d’ala: le vecchie strade della Terza via, della sinistra di governo, dall’America all’Europa, sono finite. E il successo della Linke indica che una nuova sinistra ha bisogno di parole d’ordine più radicali. Schlein sembra invece ancora ancorata ai vecchi paradigmi del socialismo europeo, sempre più in crisi, anche a causa di una posizione troppo bellicista sull’Ucraina. Una postura (che fa il paio con il sì alla controversa commissione Ursula bis) che rende più difficile dire no all’aumento delle spese militari a favore del welfare. E questo è uno dei nodi chiave che Schlein non ha (ancora) voluto affrontare, per timore di spaccare il partito. Ma nel nuovo mondo dominato da Trump non c’è più spazio per una sinistra timida.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link