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The Brutalist. L’ossessione dell’architettura | Luca Molinari


In uno dei primi giorni del secondo mandato di presidenza furiosa di Donald Trump, tra caccia ai clandestini, ridefinizione dei generi e smantellamento dello Stato Federale, la grossa firma del presidente è stata apposta a un documento interessante chiamato “Beautiful Federal Civic Architecture” in cui si danno le linee guida per la costruzione e il linguaggio dei nuovi edifici federali, con particolare attenzione che gli stili del Brutalismo e del Decostruttivismo non vengano mai applicati. In un tripudio di colonne bianche, marmi e stucchi che confermino la lunga tradizione dell’architettura neo-palladiana come originale e tradizionalmente americana, il cemento armato a vista, i volumi aggressivi, il cristallo e l’acciaio sono accusati di essere non-americani, eccessivamente moderni (in un Paese che ha fatto della modernità il suo mantra esistenziale) e non conformi all’ideale di bellezza del presidente rivoluzionario a trazione anteriore.

Colpisce che, a distanza di oltre sessant’anni, il termine Brutalismo riecheggi ancora sinistro nei pensieri dei conservatori statunitensi, confermando l’aura di ferocia materica e strutturale che ha segnato l’immaginario collettivo su tutta una immensa famiglia di opere costruite tra Ovest ed Est del mondo e che oggi versano quasi tutte in uno stato rovinoso e di parziale abbandono. Dal Giappone dei Metabolisti, passando per l’architetto americano Paul Rudolph recentemente celebrato in una grande mostra al MoMA, Vittoriano Viganò con il suo tragicamente meraviglioso Istituto Marchiondi alle porte di Milano, le decine di monumenti alla fine della guerra, hotel fronte mare, uffici ministeriali costruiti nei Paesi dell’asse sovietico, tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Settanta il mondo fu attraversato da un sussulto di orgoglio modernista, un po’ machista nei modi e nelle forme, in cui la potenza espressiva del cemento armato, le geometrie discordanti, le forme estreme segnarono le sagome di tante architetture che definivano il profilo delle nascenti metropoli globali, dove la grandezza sintetizzava l’immaginario di un paesaggio urbano che si faceva sempre più immenso e difficile da gestire.

Paul Rudolph, “Rudolph Hall” (Yale Art and Architecture Building), New Haven (Connecticut, USA), 1963.

Eppure le origini di questo termine sono molto più complesse che non il risultato formale.

In architettura il termine emerge nel 1923 con Le Corbusier: “L’architecture”, scrive nel suo libro capitale, Verso una architettura, “c’est, avec des matières brutes, établir des rapports émouvants”.  L’idea dell’architetto svizzero è quella di legare il potere simbolico e materico del cemento armato a una dimensione perturbante ed emozionale. Questa lettura accompagna questa materia e il suo uso soprattutto nel secondo dopoguerra, a partire dal cantiere della Unité d’Habitation di Marsiglia e poi nel convento di La Tourette e nella neo-città di Chandigarh in India, facendo urlare i puristi al tradimento dell’architettura bianca degli anni Trenta.

Ma la dimensione perturbante del brutalismo credo che riguardi soprattutto un altro elemento, ovvero quello della rielaborazione del trauma di una intera generazione di artisti e architetti sopravvissuti alla Seconda Guerra Mondiale e alla sua feroce brutalità globale. La Art Brut teorizzata dal 1946 dall’artista francese Dubuffet è il ritorno a una primitività del gesto che impasta materia, segni naïf e una potente espressività: un amalgama che fa i conti con gli incubi e i ricordi di tutti questi giovani appena usciti dalla guerra, con gli occhi pieni di terrore nucleare e dei campi di concentramento nazisti. Il Brut è la reazione alle arti accademiche e neo-classiche amate da Hitler, Stalin e Mussolini. Brut è la tela di sacco strappata e rabberciata di Burri. Brut è la prima forma di elaborazione creativa e psichica del trauma del conflitto mondiale.

A questo momento seguirà per l’architettura il lavoro teorico dell’inglese Reyner Banham, che nel 1955 pubblica un saggio fondamentale sulla rivista “Architectural Review” intitolato The New Brutalism in cui, partendo dall’opera di Le Corbusier, apriva alla lettura di una nuova generazione di progettisti e di opere immaginate e realizzate attraverso pochi, semplici, principi: reazione all’architettura storicista, piante con una chiara personalità, una chiara esibizione delle strutture e dei loro volumi e utilizzo dei materiali nella loro verità, senza alcun rivestimento. Questo testo aprirà ufficialmente una stagione poderosa dell’architettura moderna chiamata a costruire i nuovi monumenti pubblici del nascente Welfare State in tutto il mondo.

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Brady Corbet mostra il Leone d’Argento per la regia di The Brutalist.

Senza queste lunghe premesse sarebbe inutile guardare un film come The Brutalist. Carico di premi (Leone d’Argento all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, tre Golden Globe) e di nomination agli Oscar, andrebbe letto con una sottigliezza differente, provando ad andare oltre la colonna sonora perfetta, le prestazioni dell’intero cast, la grafica e l’estetica molto attenta che accompagna tutto l’immaginario della pellicola diretta da Brady Corbet. Abbiamo a che fare con un’opera che è il prodotto delle ossessioni e della volontà di un regista giunto alla sua prova più impegnativa dopo due lungometraggi (L’infanzia di un capo, 2015, Vox Lux, 2018), che per un decennio ha cercato gli investitori per un film che è costato mediamente poco (9 milioni di dollari) rispetto ai budget dei kolossal di Hollywood.

Anche nel suo percorso produttivo il film sembra incarnare l’ascesa al mito tipica della narrativa statunitense, con le difficoltà, le prove da superare, gli incidenti di percorso (le riprese spostate dall’Ucraina invasa dai Russi alla Polonia), e la consacrazione finale. E lo stesso tono sottende la trama del film, che racconta la parabola di László Tóth, architetto ebreo-ungherese sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti che emigra negli Stati Uniti per costruirsi una nuova vita nella Terra Promessa, patria della modernità che rende ogni sogno possibile malgrado le difficoltà, le sfide perdute e i prezzi personali da pagare per raggiungere il successo. Questa apologia del mito americano fa uno strano effetto in questo specifico momento storico; e deve far riflettere sulle motivazioni reali del regista, in un periodo in cui l’immigrazione è vista come un pericolo da combattere, quando per almeno centocinquant’anni ha nutrito l’economia americana e la sua società multinazionale e multirazziale. La stessa mitografia del successo e del progresso americano è letta in The Brutalist con uno sguardo molto più ambiguo: al di là dei toni lirici e a tratti retorici che sottendono tutto il film raccontando il nostro protagonista come un moderno Prometeo, emerge continuamente l’arroganza cieca e indifferente del potere, il suo cinismo e l’uso sprezzante che fa del talento creativo altrui; oltre al razzismo che attraversa ogni strato della società americana, vista come una perfetta macchina di produzione di massa.

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Gary Cooper in The Fountainhead (King Vidor, 1949).

Diventa molto semplice fare un parallelo tra The Brutalist e un film che è certo il suo punto di riferimento, ovvero La Fonte Meravigliosa (The Fountainhead), tratto dal romanzo omonimo di Ayn Rand e diretto da King Vidor nel 1949. Questo capolavoro in bianco e nero narra la storia di Howard Roark, giovane architetto che combatte contro un sistema tradizionale per affermare i principi dell’architettura modernista a costo della propria sicurezza economica, fino ad arrivare, dopo immensi sacrifici e scontri, all’affermazione personale e creativa nella parte finale del film. Il sogno americano è incarnato da un giovane Gary Cooper, bello, elegante, sprezzante. Il film è inondato da una luce accecante, da bianchi e neri espressivi che accompagnano la costruzione visiva della produzione e le architetture sono volumi semplici, in acciaio e vetro, dalle forme elementari ed eleganti, figlie dell’emergente International Style di Mies van der Rohe e Walter Gropius, veri fautori del mito occidentale americano di cui l’architettura è stata ambasciatrice simbolica e formale nel mondo globalizzato del libero mercato. Il film di Vidor non ha dubbi: il corpo dell’architetto e delle sue opere è asciutto, forte, performante come lo spirito del tempo che andava a rappresentare. Molti critici hanno voluto vedere nella figura di Roark quella di Franck Lloyd Wright, il padre dell’architettura moderna americana, lontano anni luce dalle immagini mostrate nel film, ma campione volitivo di un’idea architettonica che è prima di tutto fede nella modernità, al punto da incarnarne un culto che diventa professione di fede in un mito collettivo destinato a rendere il mondo migliore.

Quanto la luce di The Fountainhead acceca gli spettatori, tanto la percezione metereologica e di atmosfera di The Brutalist appare opposta, con la costante sensazione di un clima carico di pioggia, vento freddo e tempesta che ti entra nelle ossa e negli occhi. La pasta del film è satura, densa di emozioni contraddittorie, e il vento della gloria si mescola continuamente con il sapore della tragedia.

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Adrien Brody in The Brutalist.

László Tóth non è un americano ma un europeo, ebreo, sopravvissuto a una delle tragedie più immani e pervasive del secolo passato. Quell’uomo ha dentro di sé il sapore della morte, la resistenza antropologica allo sterminio, la caparbietà del sopravvissuto, la cultura sofisticata dell’Europa Centrale e l’insegnamento rigoroso e mistico della Bauhaus. Quell’uomo possiede una densità struggente che s’incarna nel volto e nel corpo di Adrien Brody, nella moglie (Felicity Jones) costretta in carrozzella a causa della malnutrizione subita durante la prigionia, nel silenzio caparbio della nipote (Raffey Cassidy) che l’accompagna dall’Europa, nelle espressioni dell’amico di colore (Isaach De Bankolé) e degli operai che appaiono come comparse dolenti nella costruzione del nuovo monumento alla follia del ricco committente.

Questi corpi diventano elementi di opposizione, quasi di resistenza, al clima di facile ottimismo che ogni tanto traspare dalle pubblicità del tempo che dipingono Filadelfia e la sua terra come il luogo in cui i sogni e la modernità prendono forma. L’architettura che Tóth viene chiamato a costruire per il magnate Harrison van Buren (Guy Pearce) in cima a una collina che domina il villaggio di Doylestown è un manufatto che emerge con violenza dallo scavo della terra, grazie a strutture in cemento armato che puntano dritte al cielo. Il modello che viene presentato al committente prima e alla comunità locale poi, è l’immagine di un volume potente, quasi assoluto, stereometrico, segnato da tagli di luce che arrivano nel cuore profondo della costruzione e appoggiato a fondazioni che ricordano le carceri di Piranesi o le grandi cisterne dell’acqua romane. Non c’è mai luce salvifica ma il senso della costruzione di un manufatto che incarna l’elaborazione del trauma dei campi di sterminio, delle baracche intrappolate dal freddo e il fango, del camino dei forni crematori da cui usciva sempre un bianco fumo, dell’idea di labirinto in cui migliaia di schiavi erano intrappolati in attesa della soluzione finale.

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Le motivazioni ultime dell’opera di Tóth sono solamente accennate nell’epilogo della vicenda, quando la storia e le opere dell’architetto ungherese sono celebrate alla Biennale d’Architettura di Venezia del 1980, e la nipote descrive la genesi simbolica di un’opera che sappiamo essere stata finalmente costruita, ma che non vediamo mai completata nel film. Il labirinto angoscioso nelle sue fondazioni, i tagli nel cemento armato, l’oppressiva monumentalità espresse dall’opera immaginata per il Centro Culturale Van Buren nel cuore della verde e ottimista America, altro non erano che la rielaborazione delle memorie ancora vive di Dachau e il tentativo di redenzione dal dolore che abitava l’architetto.

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Il successo arriva solo poco prima della morte dell’autore: è ormai scomparsa la dimensione salvifica del successo del film di Vidor e di tutta la filmografia americana, l’architettura così sofferente ed espressiva è immagine di un tempo diverso, in cui il sogno della modernità è svanito per fare posto agli incubi del nostro presente.

Il film presenta livelli di lettura molto più sottili e ambigui, perché il tutto è confezionato con una cura per il verosimile prossima alla perfezione, dove le citazioni riportano con naturalezza all’estetica Bauhaus, alle opere di Marcel Breuer nel Nordamerica e all’eleganza europea applicata al disegno dei manufatti che arredano e accompagnano soprattutto la prima parte del film. Alla figura del padre fondatore Frank Lloyd Wright sembra che venga opposta quella di un altro campione dell’architettura statunitense: Louis Kahn, ebreo lituano emigrato proprio a Filadelfia, progettista di alcune tra le opere più potenti e originali della cultura architettonica americana del secondo dopoguerra. Un uomo più problematico, con un occhio alla vecchia Europa e un altro al Paese che lo aveva accolto.

Ma volendo andare oltre le possibili personificazioni dei due eroi dei film narrati credo sia interessante guardare come l’immaginario architettonico proposto racconti di due momenti storici specifici, in cui il mito del successo all’americana si muove dalle forme luminose e ottimiste del 1949 al cupo cemento imbevuto d’acqua, fango e sangue del 2024. Come se le immagini delle trincee ucraine avessero fatto irruzione nella mente del regista, mescolando la tragedia della Shoah a quella dei nuovi conflitti che stanno squassando il nostro mondo, a decretare la fine definitiva di quel sogno occidentale che ha esaurito la sua traiettoria storica.



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