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Trent’anni dopo la scomparsa di Sergio Atzeni, la Sardegna resta immobile nel cambiamento


di Ilaria Muggianu Scano

Sono trascorsi esattamente trent’anni dalla scomparsa di Sergio Atzeni, sardo di Cagliari, una delle voci critiche più argute della contemporaneità italiana. Giornalista, traduttore, musicista, politico, scrittore mancato troppo giovane tra le acque dell’isola di Carloforte. Era il 6 settembre 1995. Dopo trent’anni di attività pubblicistica in numerose testate, da L’Unità a Paese Sera, da Il Giornale a La Nuova Sardegna, da Linus a Il Giorno si rafforza il suo carisma editoriale con Mondadori, Il Maestrale, Sellerio senza considerare la produzione in qualità di traduttore nelle majors editoriali italiane.

In seguito alla cocente delusione in seno al Partito Comunista sia sul piano dell’ideale che per un mancato appoggio che lo avrebbe reso un mezzobusto familiare alle case degli italiani, Atzeni si trova a riflettere fino alla fine dei suoi giorni su quel sistema esistenziale di sliding doors con un’amarezza che ne cannibalizza l’intero percorso esistenziale in quella semplificazione binaria “giornalista o non giornalista” che di fatto prova a elaborare fino all’ultimo libro: Il quinto passo è l’addio.

Ma se le logiche lottizzatrici dei partiti coevi all’autore non lo avessero condotto verso nuove ambizioni intellettuali, avremmo avuto Bellas Mariposas? L’opera uscita postuma con Sellerio nel 1996 e trasposta per il grande schermo nell’opera omonima del regista Salvatore Mereu è da considerarsi a buon diritto una felice antesignana de L’amica geniale. La potenza narrativa e l’autenticità di Cate, la protagonista e voce narrante del romanzo, con la sua poetica visione della realtà, anticipa la voce generazionale di Lenù Greco, immersa come l’alter ego di Elena Ferrante in una periferia disagiata e deviante e nonostante la tangibile assenza di ogni bellezza preserva uno sguardo puro sul reale, ad onta di ogni evidenza di degrado, anche nei personaggi che come Nino Sarratore avranno più di un’occasione evolutiva per redimersi dall’abisso nichilista del rione, ma che di fatto rimarrà deviante anche dopo l’ascesa al Parlamento.

La Sardegna avrebbe avuto una cosmogonia propria, quella dei danzatori delle stelle, rielaborata in Passavamo sulla terra leggeri? Atzeni ricostruisce – con un lavoro linguistico sul sardo assimilabile a quello di Camilleri per il siciliano – la temperie culturale degli Anni di Piombo nel capoluogo sardo. Cosa ha significato viverli in una realtà avulsa dallo stivale, cosa ha significato viverli da artista.

Già a distanza di dieci anni anni dalla scomparsa, quindi parliamo del 2005, si contavano una decina di scuole dedicate allo scrittore sardo. La gente lo ama e a conti fatti è forte il sostegno delle istituzioni, soprattutto in considerazione dei tempi biblici necessari al riconoscimento degli artisti sardi in patria. Difficile, tuttavia, capire se la sua opera sia compresa in maniera capillare. La Sardegna sembra invulnerabile a ogni cambiamento.

Chissà se Atzeni avrebbe evocato un concetto che gli era particolarmente caro, quello di “neopodatario”, per commentare la riapertura della miniera sotterranea di Silius, una miniera di fluorite nel Gerrei, a 50 chilometri da Cagliari, bloccata in un iter autorizzativo di 12 anni. Un pugno di posti di lavoro e una resistenza delle comunità locali liquidata dalle parti interessate all’attività estrattiva come disinformata e ignorante dei moderni processi produttivi. Un po’ come quanti privi di argomentazioni liquidano un interlocutore pedante con: “Eh, il problema è più complesso di così”.

Sono tantissimi i giovani universitari che oggi chiedono una tesi di laurea sulla poetica di Sergio Atzeni, colpiti in ogni aspetto dall’identità plurale di un pensatore che ha saputo maneggiare, in maniera inedita nella storia sarda, il concetto di Sardegna nazione, scevro da ogni tornaconto o accomodamento politico, ancor meno accostabile allo spirito rivendicazionista di certe declinazioni odierne.

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